Racconto breve

Racconto breve

Fiume, bosco, casa

Fiume, bosco, casa
di Matteo Beltram

In un’epoca in cui la civiltà che conosciamo oggi, o disconosciamo, non era ancora tale, un uomo camminava a testa bassa lungo un sentiero di terra rossa infinitamente costeggiato da brughiere smeraldine, chiazze di faggeti fruscianti, castagni solenni e betulle dalle cortecce di un bianco corallo, cariche di luce lunare. Il pellegrino era vestito di stoffa vecchia e cuoio, strizzava gli occhi fra zigomi spigolosi e madidi e arcate sopraccigliari grondanti sudore buono, che lo faceva sentire ripulito. Il sudore si tuffava in direzione del suolo a rigagnoli, giù dalla sua fronte e dalla sua barba lunga, spruzzata di bianco. Lui pensava che dove il suo sudore cadeva sarebbero cresciute delle felci, che erano piante stregate, indemoniate come lui. Sbuffava come un cavallo bretone e anche se la sua mascella era contratta per via della furia della sua falcata, nel cuore gioiva e rideva sguaiato. Stretto in pugno faceva danzare un bastone di nocciolo che lo superava in altezza, con il quale qualche chilometro prima aveva tenuto a distanza un enorme becco che aveva tentato di caricarlo.

Lasciarsi alle spalle la sua vita di malora era stato difficile, c’erano stati momenti in cui aveva creduto di non farcela. Aveva sperato di morire, di sparire come folgorato da un’esplosione dell’anima. Ma poi la guerra era finita e anche se sapeva che non era vero, gli pareva che fosse finita per sempre e che l’umanità intera avesse solo voglia di ballare, scopare e ricominciare, senza orari, senza preoccupazioni, senza ordine. Per sempre rivivere, per sempre cambiare. Ma non era vero, lo sapeva, solo che adesso era così. Aveva 45 anni e allora, deposte le armi, tutto il resto lo aveva tenuto e si era lasciato alle spalle Modena a passo spedito per inseguire il suo sogno d’infanzia. Avrebbe vagato per sempre e per sempre sarebbe stato nomade, respirando l’aria, bevendo l’acqua, mantenendo vivo il corpo. E sarebbe stato normale così, sarebbe stato come il suo mestiere, ma senza essere un mestiere.

Aveva militato nell’ottava Garibaldi sui crinali dell’appennino Tosco-Romagnolo. Aveva buttato giù dalla rupe qualche fascista, ma certe volte si era sentito come loro, non meno cattivo, non meno burattino, né meno disperato.

Se n’era andato per sparire, per non saperne più nulla, per dimenticarsi onori, date, nomignoli o celebrazioni.

  • Il tempo non esiste più, è stato ucciso. Le date sono prigionia, miserabili codici per politici – Mormorò fra i pesanti e forti respiri.

Se n’era andato in direzione del mondo per non sentirsi dire di aver liberato la patria, che sapeva essere finita in mano ad altri e che dunque libera, di certo, non sarebbe stata mai. E perfino il concetto di patria ormai, si stava dissolvendo fra i suoi pensieri. Come avrebbe mai potuto una patria liberare le persone, se la sua funzione era quella di contenerle?

Camminava da quasi 200 giorni quando raggiunse Otranto. Aveva trascorso lunghi mesi nelle campagne della Maremma, aveva svernato nelle grotte e nelle locande del Lazio, per poi risalire verso l’Umbria in primavera. Era ridisceso verso l’Abruzzo e si era addentrato nelle terre molisane, così come in quelle della Basilicata. Nel suo corpo era sparita la contaminazione della guerra, non si ricordava più delle opinioni politiche, dei cosiddetti commilitoni, dei morti. Era riuscito a porre una distanza netta fra sé e un passato al quale non voleva appartenere. Ci fosse stata una medicina che gli avesse fatto dimenticare di netto gli ultimi 40 anni di vita, bè lui l’avrebbe presa ingollandosi appresso un mezzo di San Giovese e cantando. Perché per lui tutte le vicende sulle fazioni, le lotte, gli arruolamenti, il rendimento che la guerra richiedeva per rimanere vivi, altro non erano che futili miserie umane. E scuoteva la testa quando immaginava che per i secoli a venire i bambini nelle scuole avrebbero studiato la seconda guerra mondiale. Che vergogna, mamma mia, che vergogna. Pensava.

Rimase qualche giorno a bighellonare fra le vie di Otranto. Gli offrirono più volte da bere e da mangiare in cambio di qualche racconto da viandante e da partigiano. Quando si leccava le labbra sentiva il sale. Alla terza alba, senza chiedere il permesso, come fosse un gabbiano, montò su una barca di legno che, a detta del capitano, andava fino in Turchia. Chiese di avvicinarsi quanto bastava alle coste greche.

  • Quanto basta per fare cosa? – Gli chiese il capitano turco sorpreso di trovarselo davanti e di quella pretesa incomprensibile.
  • Per tuffarmi e raggiungere a nuoto la Grecia. – Aveva risposo lui con tono squillante e solenne, destando le risa della ciurma.
  • Devi scendere dalla mia barca, uomo pazzo, noi non andiamo in Grecia. – Gli rispose di primo acchito il turco sfoggiando il suo italiano rimbalzante.
  • Ma se ci passi anche soltanto a un chilometro e mi lasci una trave, io mi tuffo, non devi nemmeno attraccare. – Disse lui sorridendo e spingendo l’aria con le mani mimando una nuotata.

Il capitano turco allora lo aveva guardato per bene.

  • E i tuoi stracci? E il tuo zaino? – Gli aveva chiesto senza ancora reputare seria quella stramberia che gli era appena stata proposta.
  • Li vuoi? Sono tuoi. – Sbottò il viandante.
  • Non li voglio. Ma cosa sei? Una specie di pazzo per davvero?
  • Così mi ci hai già chiamato. Fai tu, a me non cambia.
  • Non ti disturba se il mondo ti reputa un pazzo?
  • Il mondo? Ce l’hai presente il mondo, capitano? Sarei io il pazzo?
  • Si che lo sei. Almeno hai dei soldi?

Lui rise senza ritegno.

  • Soldi capitano? No. Ho soltanto calli e calzini sudati.
  • Di cibo per te allora non ne abbiamo, sia chiaro.
  • Ho ancora tre scatole di carne nello zaino. E una mezza borraccia di acqua piovana. Provvederò a me stesso.

E poi il capitano annuendo gli aveva fatto cenno di accomodarsi sulla barca, che in tutto era lunga una ventina di metri e che avrebbe attraversato lo Ionio e poi l’Egeo, per attraccare a Smirne.

  • E dove mi lasci? – Chiese ancora l’uomo allungando la mano per stringere quella del turco, in segno di riconoscenza.
  • Io non conosco niente della maledetta Grecia. So solo che ci passiamo troppo vicino. Quando ti dico di andare, tu vai. E cercati un tronco tuo, io non ho legna da sprecare.

E fu proprio così che raggiunse la Grecia, aggrappato a una porticina di legno che aveva scardinato da una cantina colma di ciarpame, nella zona del porto di Otranto, prima di salpare.

  • Pazzo! Veni qui! – Gli aveva urlato il capitano dopo un giorno e mezzo di navigazione.

E lui si era fatto largo, tutto emozionato, abbracciando la sua porticina scassata, fra i marinai al lavoro, che in tutto erano sette e che non gli avevano rivolto la parola nemmeno una volta.

  • Mi dica, capitano.
  • Ci siamo, uomo pazzo, vedi quel lembo di terra che sembra volersi staccare dalla sua patria?
  • Certo che lo vedo, capitano.
  • Secondo le mappe quello è Porto Kagio, sembra a un tiro di schioppo, ma sta a un chilometro e mezzo, forse due. Adesso tu ti tuffi e ci vai e noi tutti ti diremo buona fortuna per sempre.

Fece di sì con la testa, recuperò le sue cose e senza esitazione si spinse oltre il parapetto del ponte, precipitando verso un azzurro mare placito e terso, che lo invitava in modo irresistibile. Un boato di urla d’incoraggiamento accompagnò la traiettoria del suo volo, poi vide solo bollicine, pesci e spuma.

Lo zaino gli si era riempito immediatamente d’acqua. Riemerse, ma il peso delle due scatole rimaste e di qualche baionetta lo spingeva verso il basso. Mentre nuotava aggrappato al legno aveva pensato di liberarsene. Poi aveva capito che non sarebbe stato necessario, non sarebbe più andato sotto, la porta e la spinta delle sue gambe bastavano a garantirgli l’avanzata. Il mare era calmo, la costa si vedeva bene e in due ore la raggiunse.

  • Hella, Hella, porca puttana!- Ansimò sfinito rovesciandosi sulla sabbia, appena uscito dal mare.

Ripreso fiato si tolse lo zaino e tutti i vestiti, mise tutto ad asciugare sulla sabbia.  Recuperò una latta di fagioli con carne, la penultima. La aprì con una delle baionette e la mangiò pungendo con calma i bocconi impiastrati. Guardava il mare dal quale era venuto e lasciandosi cullare dallo sciabordio ridondante delle onde calme nutriva il corpo, che era nudo, cosparso si sole, sale e sabbia. La barca turca intanto era sparita oltre il profilo basso del lembo di terra.

Si credeva solo al mondo ormai, e più di questo ci si sentiva, solo al mondo, ma inaspettatamente lo raggiunse una cagnolona gigantesca che fra le fauci stringeva un pesce. Lui si pietrificò, impressionato dalle dimensioni dell’animale. Aveva la testa grossa come quella di un vitellone, il suo manto era ispido, di un bianco screziato di nero; gli occhi erano fulgidi e conservavano il sacro fuoco della libertà. La cagnolona era calma, si sedette a un paio di metri da lui, fissando il mare a sua volta, senza dare cenno di volersi mangiare quel pesce. Lui rimase stordito da quella visione, la baionetta sospesa fra la bocca e la lattina, con un boccone di carne infilzato sulla punta. Dopo qualche istante si ridestò e riprese a mangiare, badando alla cagnolona soltanto con la coda dell’occhio. La bestia lo attese senza più degnarlo di uno sguardo, ma quando lui finì il suo pasto lei si alzò e prese a dimenare la coda, puntando dapprima il muso verso di lui e poi verso la collina di roccia ed elicriso che troneggiava alle loro spalle. Lo fece ripetutamente e lui capì che quello era un invito a seguirla. Poi partì al trotto. Lui rimise la scatola vuota nello zaino e si mosse in fretta per non perderla di vista. Con le sue zampe slanciate gli stava dando un distacco notevole, si rivestì in fretta e furia e le andò dietro. In uno dei punti in cui la spiaggia candida incontrava la collina, prendeva forma un sentiero sinuoso ed erto. Lo imboccò e in una trentina di metri sentì infiammarsi i muscoli delle gambe.

Chinò qualche volta il capo per sopportare il bruciante dolore e perse di vista l’animale.

Dev’essere già arrivata lassù, in cima alla falesia, con il suo pesce in bocca. Pensò prima di dare ancora una sbirciata verso l’alto e poi proseguire l’elucubrazione:

Ma l’avrò vista per davvero? Non è che ho bevuto troppa acqua salata che mi ha dato alla testa? Che roba strana da vedere, appena toccata la terra greca, un cane con un pesce di mare in bocca. E perché non lo mangia? Lo doveva portare a qualcuno, forse è così. Boia, che mal di gambe.

Guardò ancora all’insù, la cresta era vicina, la bestia era riapparsa e lo fissava.

Quando raggiunse il crinale aveva la nausea. Crollò carponi, sorpreso da quel calo drastico di energie vitali. Dimenticava di aver nuotato come un matto, poco prima.

In un paio di minuti si rimise in piedi e portò la borraccia, ormai quasi vuota, alla bocca. Recuperò un ritmo di respirazione normale. Avrebbe voluto bere ancora, ma l’acqua sarebbe finita e non aveva ancora individuato una sorgente. Sorrise e pensò che in tutta la Grecia avrebbe di certo trovato dell’acqua dolce. Aveva ragione.

Andò dietro all’animale.

Camminò lentamente per altre tre ore e quello che vide, anziché stancarlo ulteriormente, lo rinfrancò nell’animo e restituì al suo organismo qualcosa che credeva di aver perso irrimediabilmente all’inizio della guerra. Non soltanto l’irriducibile, ma forse per certi versi inevitabile, pulsione all’erranza, al vagabondaggio, ma nuovamente la meraviglia della scoperta. Piante di vite selvatiche crescevano fra rigagnoli nei quali sostavano aironi cenerini. Rocce salate, ulivi bruni e ritorti come giocatori di capoeira nascosti in una selva subtropicale. Un odore nettarino rendeva l’aria invitante, un senso di gentilezza lo pervase. Il sole era una carezza dorata che gli aveva asciugato i vestiti, la terra sotto i suoi piedi era soffice e argillosa. Il sentiero lo aveva condotto lungo un falso piano privo di insediamenti umani, che in realtà concludeva la sua traiettoria fatta di curve lunghe, sulle sommità di un monte basso, sdraiato, per niente impervio, ma che gradualmente gli regalò dei panorami incredibili. La cagnolona era rimasta sempre davanti a lui, senza mai mollare il pesce che teneva fra le fauci; sotto il suo sguardo attento lui si era tuffato nei riali di acqua dolce e cristallina, ingollandone lunghe sorsate. Aveva mangiato grappoli di uva bianca già quasi matura. Vide il crepuscolo avvicinarsi quando raggiunse il punto più alto del monte sdraiato. Rivide il mare in lontananza, alle sue spalle, e scorse nuove isole. Poi guardò davanti a sé, nella direzione in cui proseguiva il sentiero e fu allora che laggiù, in basso, notò un grande fiume argentato, una minuscola casa di sasso con il tetto di coccio, baciata da un bosco fitto e immenso. Il fiume solcava la landa trasversalmente, dal punto in cui si trovava non riusciva a comprendere dove sfociasse, né da dove arrivasse di preciso, perché la vallata, seppur larga, non gli concedeva tali scorci. Lo osservò meglio e vide che, come un nobile cavallo selvaggio non poteva essere imbrigliato, non era contenuto da argini, ma esondava qua e là nutrendo con le sue acque, vaste porzioni di terra. Il fiume era a sua volta abitato da numerosi aironi, ma vide anche alcuni cervi e una volpe sgattaiolare via come fossero sogni.

La casa era posizionata a pochi metri dalle rive del fiume. Era costruita su un solo piano, aveva una forma bassa, lunga e stretta, proprio come i rifugi montani delle sue parti. I massi che componevano le sue facciate erano multiformi, ma componevano una scala cromatica che armonizzava con le acque del fiume. Lui intuì che le pietre con le quali era fatta la casa le aveva portate il maestoso fiume. Si chiese chi mai potesse averla costruita e un pensiero magico aprì una breccia nel suo raziocinio: dev’essersi costruita da sola.

  • Ma cosa vado a pensare? – Disse.

Non sarebbe stato possibile, dunque scacciò quel pensiero. Sulla facciata, rivolta verso il fiume c’erano due finestre basse ed enormi, tappate da scuri di legno. C’era anche la porta d’ingresso, che di fatto era un portone incorniciato da travi massicce e antiche. Un’anta era rossa e l’altra era verde. Sul tetto sbucavano tre comignoli e sulla sommità di quello più grosso delle cicogne avevano costruito un nido, che sembrava anch’esso disabitato, anche se da poco tempo.

I primi alberi del bosco crescevano proprio dietro alla casa. Lui immaginò che il bosco rinfrescasse la casa con la sua pura aria d’ombra e corteccia, durante le estati più torride, e le offrisse legna buona e stagionata, da ardere negli inverni umidi e gelidi. In quanto al fiume, gli parve un guerriero taciturno, incessante lavoratore, portatore di nutrimento e messaggi dall’altrove, verso l’altrove.

Il bosco si estendeva per centinaia di ettari di pianura in direzione nord. Seguì con lo sguardo il modo in cui si profilava all’orizzonte e ne colse l’importanza. Da quella distanza gli sembrò un bosco antico, con fronde gigantesche unite a radici solide. Tante radici da riuscire ad aggrappare la consistenza di quella intera landa, salda, all’irriverente variabilità dell’acqua. Tutto era una vera opera d’arte del cosmo, un miracolo di bellezza e forza.

Si acquattò per istinto, credendo che in quel modo forse sarebbe riuscito a osservare qualcuno che usciva dalla casa o faceva il suo arrivo. La cagnolona stavolta non si sedette al suo fianco, ma prese a correre in direzione del fiume, dell’abitazione e del bosco, che distavano un centinaio di metri. La vide trottare giù dai declivi erbosi che costeggiavano la sommità del colle e allontanarsi all’orizzonte con la sua ombra lunga a precederla.

Sentì di volerle andare dietro, scrollò il capo e invitò sé stesso a non avere paura di quella terra ignota, ricordandosi di non essere mai stato nemico dei greci e che comunque la guerra era “finita”.

Quando raggiunse la riva del fiume il sole stava tramontando lentamente. Anche se la osservava da più vicino, con il fiume davanti, la casetta gli sembrava sempre disabitata. Della cagnolona non c’era più traccia, a lui venne voglia di rifugiarsi fra quelle mura. Ma non sapeva se la casa fosse accessibile. Non c’erano ponti, il fiume inoltre sembrava alto e per quanto lo facesse in maniera cortese, una grossa quantità di acqua lattiginosa lo attraversava. Non sentì l’urgenza di immergersi a quell’ora della sera, per poi rimanere fradicio per tutta la notte, magari bloccato all’aperto. Si fermò lì dov’era. Mangiò un’altra scatola di carne e fagioli e lasciò che l’oscurità armoniosa di quell’estate nascente lo avvolgesse. Posò la testa sullo zaino, ascoltò lo scorrere del fiume e si sentì protetto da una presenza che non sapeva decifrare. Come una balena che si inabissa scivolò nel suo stesso sonno dando vita a respiri placidi. Dormì senza allerta.

L’alba lo colse mentre sognava la casa. Nel sogno trovava la chiave appesa a un chiodo, proprio nel centro della porta, e vi faceva ingresso, scoprendo un mondo meraviglioso fatto di focolari accesi e caldi e soprammobili antichi. Scopriva un grosso e morbido divano verde attorniato da librerie sulle quali erano posate edizioni prestigiose di romanzi classici. C’era una musica di fisarmonica malinconica e al contempo allegra e in piedi davanti ai fornelli scorse una figura eterea, fatta d’aria in movimento. La figura emise un soffio caldo che pettinò ogni centimetro dello spazio, generando una nube di farina. In mezzo alla nube la figura trasparente si mosse volteggiando e lo raggiunse. Lui la percepì avvicinare la bocca al suo orecchio e pronunciare delle frasi:

  • Sei protetto, sei amato. – Sussurrò la creatura di spirito e vento.

Lo svegliò il canto di un cuculo e proprio la casa fu la prima cosa verso cui volse lo sguardo appena aperti gli occhi. Era ancora avvolta dalla bruma della prima luce del giorno. L’aria era ancora quella della notte, la sua pelle era fredda e dura. Si sollevò da terra e individuò il punto da cui di lì a poco sarebbe sbucato il sole. Sbuffò con la bocca e si massaggiò le spalle abbracciandosi.

Non ricordava più da quanto tempo non chiamava un luogo “casa”. La sua l’avevano distrutta con le bombe mentre le sue tre figlie e sua moglie ci stavano pranzando dentro. Si sforzò di sorridere, perché aveva deciso che quelle visioni riguardavano il passato reciso e davanti a lui si ergeva l’unica visione valida, quella presente, ed era idilliaca. Ma il mondo che gliele aveva uccise era lo stesso che lo considerava matto, lo stesso dal quale fuggiva. Provò un brivido, una sorta di scossa collerica. Strinse forte i pugni, trattenne un grido. Ripeté più volte a voce bassa: il fiume, la casa, il bosco. La casa, il fiume, il bosco. Il bosco, il fiume, la casa. La collera svanì pian piano. Si fece beffa del freddo mattutino ululando al cielo e in pochi istanti si liberò dei vestiti, lì infilò nello zaino e si issò quest’ultimo sulla testa. Completamente nudo e sghignazzante corse verso il fiume e ci si immerse tastando il fondo con il bastone. Con suo immenso stupore scoprì che l’acqua era tiepida, accogliente come un abbraccio di madre. Scoprì anche che il livello dell’acqua, nel centro del corso, lo superava di parecchi centimetri. Avrebbe dovuto usare le braccia per nuotare. Tenere lo zaino sulla testa era dunque inutile. Nuotò per quei pochi metri che lo separavano dalla riva opposta e urlò ancora al cielo, con folle sarcasmo, quando vide che lo zaino con gli abiti dentro si stava inzuppando per l’ennesima volta.

Su questa terra, se uno vuole andare oltre i confini, non può evitare di inzupparsi. Pensò. Toccò con i piedi le pietre dell’altra sponda e uscì dall’acqua. In quell’istante provò ancora quella sensazione di conforto e protezione che aveva sentito la sera prima, addormentandosi. Era nudo, seduto sull’erba fresca. Guardò meglio il fiume e voltando il capo ne seguì la traiettoria. Era immenso, la sua storia veniva da lontano, ed era incredibilmente silenzioso, considerando la mole d’acqua che era in grado di far scorrere. Quell’acqua era vitale ed era colma di poesie. Gli sembrò sbalorditivo che tutta quell’opera salvifica fosse generata producendo il semplice ed umile suono di un fruscio. L’uomo si commosse considerando la natura del fiume e in quel momento decise che lo avrebbe chiamato “Il Fiume del Silenzio Parlante”. E pensò che in fondo la parte più importante e consistente della vita delle persone, era quella che vivevano in silenzio, dentro loro stesse.

Il sole fece capolino in quel momento alla sua sinistra e i primi raggi caldi gli baciarono il viso e le spalle. Svuotò lo zaino e depose i suoi stracci sul prato davanti all’abitazione.

Così nudo com’era poi aggirò la casa e raggiunse il bosco.

Risultò essere un bosco prevalentemente abitato da castagni, qua e là accompagnati da faggi, noccioli e sorbi degli uccellatori. Rimase incantato anche da quella visione e si addentrò per un centinaio di passi fra i tronchi odorosi. Il suolo era rorido e il sottobosco era un cosmo fatato di muschio, rampicanti e radici, animato da insetti bellissimi, arvicole, merli e pettirossi. Quando guardò verso l’alto gli apparì un quadro noto che gli fece sovvenire i castagneti delle sue terre. Il sole infrangeva il fogliame penetrando le fronde con raggi simili ad ali di fenici infuocate e le foglie dei castagni, con le loro venature grosse e i loro steli robusti, stagliavano i loro profili seghettati contro la luce solare e un cielo azzurro puro come la speranza. In quel momento fu certo del fatto che proprio quella era la prima visione che si era incisa nella sua memoria, quando poco più che neonato, sulle spalle di un padre dimenticato e di fatto mai esistito, andava per castagneti. Guardava verso il cielo e vedeva le foglie oscillare come code di pavoni in amore. Sullo sfondo c’erano il sole e il cielo, Dèi inarrivabili per i quali le persone morivano, sotto i quali le persone vivevano. Ma per lui, all’epoca e per tutta l’infanzia, erano soltanto i castagni, il cielo e il sole. Una fotografia minuscola ma simbolica. Come gli sarebbe piaciuto essere rimasto fedele alla sua infanzia, quante peripezie inutili si sarebbe risparmiato. Fece un respiro profondo e sentì i polmoni nutrirsi delle particelle rilasciate dagli alberi. Quello per lui sarebbe per sempre stato “Il Bosco di Cielo e Castagni”. Le radici di quella selva vibravano di forza, senza di loro forse quella landa sarebbe scivolata via inesorabilmente a ogni pioggia torrenziale o naturale buzza fluviale.

In quel momento provò per la prima volta il desiderio di restare lì per sempre, ma lo scacciò con il furore del fuggiasco che era stato per più di mezzo anno, ruolo al quale ogni sua cellula si era abituata.

Decise allora di avvicinarsi all’immagine sacra della casa. Tornò indietro e mosse piccoli passi verso di lei, contemplandola come si guarda un anziano padre buono che non si vede da vent’anni. Avvicinandola come ci si avvicina alla lapide di un amico fraterno, ovvero a una ritrovata verità smarrita. Posò una mano su una delle mura esterne e provò la devastante sensazione di aver vissuto tutta la sua vita in un altrove che non gli apparteneva e che era lì che sarebbe dovuto nascere, ma così non era stato. Pianse lacrime feroci, per la prima volta da quando aveva raccolto le membra delle sue care dalle macerie. Pianse per la nostalgia di una vita mai vissuta. Pianse per ogni cosa che meritava un lutto. Non erano molte cose, ma erano cose serie. L’infanzia dura e affamata, consacrata al lavoro nei campi scoscesi dell’appennino, alle bestie che gli hanno fatto macellare, ma alle quali era affezionato, alle botte ricevute ad ogni tentativo di spensieratezza, la testa chinata davanti agli invasori, le donne del suo amore trucidate, l’enorme e inutile confusione del mondo. E in tutto questo non smise di accarezzare la casa. Poi cercò l’accesso. Lo trovò, era una porticina di legno di quercia incastonata in un’arcata spessa un metro. Mise la mano sulla maniglia e chiuse gli occhi abbassandola. Era aperta.

Non se l’aspettava e improvvisamente si rese conto di non avere addosso nemmeno un pezzo di stoffa e che in casa avrebbe potuto esserci qualcuno. Corse verso i vestiti ancora fradici e li raccolse dal prato per indossarli. Rabbrividì avvolto dal tessuto inzuppato e pregò che il sole del mattino iniziasse presto a riscaldare sul serio. Tornò al cospetto dell’ingresso.

  • C’è qualcuno? – Chiese con tono gentile infilando la testa nell’atrio.

Nessuna risposta.

  • C’è qual…- Si interruppe.

In fondo al corridoio dell’ingresso si apriva il locale della cucina, al suo centro c’era un tavolo di legno nero, vecchissimo e molto robusto. Sul tavolo, posato su un piatto di terracotta, c’era il pesce argentato e grosso che aveva visto fra le mascelle della cagnolona.

  • Ma che? – Bisbigliò smarrito, strizzando gli occhi.

Entrò nella casa. I suoi piedi nudi sentirono la durezza fredda del pavimento di cotto. Sulla sua destra apparve una camera da letto minuscola, munita di un camino enorme. Il letto era rifatto con lenzuola di cotone e coperte di lana, anch’esso dello stesso legno con cui era costruito il tavolo della cucina. La camera era rivestita di legno e pietre e pareva farsi attorno al letto come se volesse mantenersi protettiva al capezzale di una sacra entità dormiente.

Sulla sinistra vide l’accesso al salotto. Una stanza invece enorme, dotata di un camino ancora più grande di quello del dormitorio. Le sue pareti, sempre di legno, erano ricoperte interamente da scaffali colmi di libri e al centro della stanza c’era lo stesso divano del sogno, fatto di stoffa verde imbottita. Lo guardò per bene, si sentì invogliato a sdraiarcisi sopra e imparare tutte le storie scritte sui libri che avvolgevano il locale.

Sapeva però che doveva prima raggiungere la cucina e la motivazione lo fece sorridere sommessamente. Stava pensando infatti che quel pesce era fuori dall’acqua ormai da diverse ore e che qualcuno se lo sarebbe dovuto mangiare per evitare che marcisse. Sarebbe stato un vero peccato, dopo tutto il viaggio che aveva fatto. Si prese un po’ in giro, soppesando quella riflessione tanto razionale, mentre stava vivendo l’esperienza più incomprensibile della sua vita.

Non capiva come quel pesce fosse finito sul tavolo. Come aveva fatto la cagnolona ad entrare? Qualcuno doveva averle aperto durante la notte. E come poteva aver visto in sogno, la notte prima, esattamente quello che stava vedendo nella realtà con i suoi occhi desti?

Mosse passi rispettosi e fece il suo ingresso in cucina. Gli ricordò la cucina contadina di sua nonna, solo molto più ordinata. Il banco da lavoro era sul fondo della stanza, di fianco a una parete composta in gran parte da una finestra che si affacciava sul retro della casa e sul bosco. Di fianco al banco c’erano i fuochi, di ghisa, 4 in tutto. Dal soffitto penzolavano telai di legno con appesi pregiati utensili di rame, legno e ferro. I tegami, le padelle, le pignatte e i paioli erano posati su assi sottostanti al banco. Guardò verso il tavolo e toccò il pesce, accarezzandolo piano con una mano. Rimase incredulo quando constatò che era ancora freddo, fresco come appena pescato. Si voltò e guardò verso l’uscio dal quale era venuto. Tacque e rimase all’ascolto di quegli ambienti.

  • C’è qualcuno qui? – Disse a voce alta.

Nessuna risposta, solo lo sguardo del sole che faceva capolino da uno spiraglio fra le imposte.

Sospirò, indugiò qualche istante e poi si mosse, con calma ma con determinazione. Dapprima spalancò gli scuri della porta finestra della cucina, poi raggiunse il salotto e la camera da letto e fece lo stesso con le altre finestre. Adesso la casa si nutriva di luce solare sempre più calda. Il legno si asciugava, il cotto del pavimento si intiepidiva. I suoni del fiume entrarono nella casa e si incontrarono con quelli del bosco, proprio a metà strada. La casa era diventata il loro teatro. Lui rimase inebriato da quella melodia e decise di accendere un fuoco in riva al fiume per cucinare il pesce. In cucina trovò dei cerini lunghi, raccolse dei rami sottili dal margine del bosco e diete vita alle fiamme. Pulì il pesce e lasciò scivolare via le sue interiora trasportate dalla corrente dell’acqua. Lo posò sulla brace e lasciò che si cuocesse. Fu un pasto squisito.

Avvolto dall’accoglienza naturale di quegli elementi, nel silenzio che necessitava, si sentì definitivamente scomparso dal mondo dal quale voleva sparire. Ce l’aveva fatta, adesso era davvero lontano, era riuscito a fuggire. Nessuno sapeva che lui era lì, camminando per mesi era riuscito a far perdere le proprie tracce a familiari, amici e conoscenti, recidendo di netto gli echi delle dicerie sulle sue scelte di vita. Sapeva di essere uscito definitivamente dai pensieri degli altri, era passato troppo tempo e nessuno lo aveva più visto. Quella forma di anonimato lo faceva sentire libero da ogni fardello. Libero per davvero. Neppure lo Stato, la maledetta Patria, lo avrebbe mai più rintracciato. Non avrebbero più incassato le sue tasse, non lo avrebbero mai più visto incasellato e composto fra le file da loro chiamate.

Con la bocca sporca di pesce si alzò di scatto senza riuscire a contenere un fremito di gioia e urlò a squarciagola roteando su sé stesso.

  • Tu sei la Casa dello Spirito Amico!

Fece il giro dell’abitazione a corsa stringendo i pugni come un bambino. Quando tornò al fuoco in riva al fiume la cagnolona era lì che lo aspettava scodinzolando, in posizione di gioco. Lui si acquattò e mosse le mani invitandola a una corsa insieme, poi guizzò di nuovo verso la casa e guardandosi indietro vide che la cagnolona lo aveva già raggiunto. Gli morse le caviglie con occhi vispi e lo fece cadere, lui rise e lei prese a corrergli attorno colpendolo ogni tanto con il muso bagnato.

  • Ma me lo vuoi dire da dove sei sbucata? – Gli chiese fra le risate e rimanendo sdraiato.

La cagnolona abbaiò forte e poi corse verso il fiume, ci si tuffò con un salto tutto potenza ed esaltazione e dopo qualche secondo ne uscì tenendo un altro pesce in bocca. L’uomo si sbellicò dalle risate, fino a sentire male alla pancia. La cagnolona lo osservava compiaciuta mentre lui sbatteva il pesce ripulito sulla brace ancora incandescente.  Poi pensando di farle un piacere aprì l’ultima scatola di carne in conserva svuotandola su una pietra. Con un gesto gioioso invitò l’animale a mangiarla tutta. Lei si avvicinò guardinga a quella massa informe e gelatinosa, la annusò e si ritrasse mugugnando. Lui la vide rifiutare il pasto e si fece serio, pensò che in fondo quel cane aveva ragione. Quella sbobba era stata l’unico suo pasto per tutti gli anni della guerra, poi gli empori avevano iniziato a rivende le scatole che gli eserciti avevano abbandonato nei loro depositi e lui, forse per abitudine, o per il rimasuglio di un istinto autodistruttivo che durante la guerra gli faceva provare una specie di appagamento contorto, aveva continuato a comprarla, o a chiederla, quando rimaneva senza spiccioli, anche durante il suo pellegrinaggio.

  • Ma come abbiamo fatto a rincoglionirci a tal punto da convincerci che mangiare la merda sia normale? – Disse a voce alta.

Scavò un piccolo solco sul bagnasciuga. Raccolse con le mani la carne in scatola e la posò nel buco, per poi sciacquarsele nel fiume. Con un piede mosse la sabbia fradicia e ricoprì la carne. Ci mise su una pietra e si ripromise di amarsi di più.

  • Qui giace il mio disamore, che mi ha fatto abituare alle cose peggiori, ma che il fiume, il bosco, la casa, hanno reso gentilezza. – Enunciò a voce alta, mano sul cuore.

Il pesce si arrostì in pochi minuti, lo ripulì dalle lische e ne diede la metà alla cagnolona. Mangiarono insieme e poco dopo, uno di fianco all’altra, davanti al fuoco acceso, si addormentarono. Dietro di loro la casa era aperta, immobile, silenziosa. Eppure sembrava respirare, osservare. Sembrava Dio, o chi per esso, come fosse l’universo che cerca di parlarci tramite la materia del mondo, con minuscoli gesti visibili solo a chi è attento.

A pochi centimetri dai loro piedi, come la carezza gentile di una contadina poetessa sul manto di una capra, scorreva il fiume. Oltre la casa, anch’esso assopito dalla luce calda del mezzogiorno e dalla brezza salata che dal mare giungeva fin lì, ondeggiava il bosco.

Quello del pellegrino fu un sonno profondo seppur breve. Riaprì gli occhi sorridendo, perfettamente ristorato e felice di svegliarsi ancora lì. La cagnolona non c’era più ma stavolta non ci pensò su più di tanto. Aveva capito che lei doveva essere uno spirito libero. Fluiva come voleva nelle visioni delle persone.

Si mise seduto, i suoi vestiti stracciati erano di nuovo asciutti, così gli venne in mente di addentrarsi fra le ombre più recondite del bosco, in cerca di bacche da mangiare quella sera e per conoscerlo meglio. Guardando il sole capì che non era ancora passata la prima metà del pomeriggio e che l’oscurità era ancora lontana. Quella foresta, in ogni caso, non gli aveva trasmesso nessun senso del pericolo, piuttosto un’idea di vastità pressoché sconfinata, che avrebbe potuto contenere leggende, animali mitologici e chissà, magari perfino una tribù di bambini orfani della guerra e della carestia, salvi proprio grazie alla vita che fioriva e si generava fra quelle migliaia di tronchi. Piccoli e salvi bambini, con i piedi come radici e le menti incontaminate.

Camminò nel bosco per un bel pezzo, prima di rendersi conto di non aver lasciato dietro di sé nessuna traccia per non perdersi. Non aveva con sé nulla di adatto a creare una scia, dunque cercò di dare ad alcuni alberi o altri elementi del bosco dei nomi significativi, impossibili da dimenticare. Impresse nella sua memoria le due querce innamorate, il castagno inchinato, l’edera lucertola, la pietra altare e poi ancora i noccioli spadaccini, la collina timida, l’abete inciampato, la fossa dei segreti stupendi. Dopo un’ora abbondante di marcia lenta e contemplativa sbucò in una radura che lo lasciò letteralmente senza fiato. Ruotò su sé stesso guardando verso l’alto, incredulo, quel luogo era talmente bello da sembrare il cuore pulsante di quel bosco, o del mondo intero. In quel momento, come una specie di custode, un falco planò nel centro della radura, atterrò su una delle radici e lo fissò. Tirava una lieve corrente d’aria che sembrava il respiro degli alberi, due scoiattoli saltarono giù da un castagno e attraversarono lo spiazzo erboso passando a pochi centimetri dagli artigli del falco, che però non distolse il suo sguardo dal pellegrino.

Lui capì subito che lo sguardo di quel rapace era abituato a vedere le alture del mondo, a sorvolarne le amarezze e i conflitti e a fungere da ispirazione per chi si affannava e sfiniva nella sterminata e distruttiva macchia umana. Il falco era il padrone del cuore.

E l’uomo, inebriato dalla tanta bellezza, improvvisamente crollò al suolo, travolto da una commozione che, più rimaneva in quei luoghi, e meno riusciva contenere. Si rotolò sul terriccio profumato ora bagnato dalle sue lacrime. Strinse con le mani il suolo poroso, aprì la bocca e lo assaggiò. Vide in quel falco un sacro emissario, venuto dalla sua stessa terra originaria. Vide nel cuore del bosco la culla in cui sarebbe rinato.

Si era ricordato di aver vissuto sempre come un esiliato e come uno schiavo, perché non era mai più riuscito a ritrovare la terra sulla quale era nato. Non l’aveva neppure mai vista, ma sapeva che esisteva, in un altrove inarrivabile esisteva. Non era una terra fisica, bensì concettuale. Una terra fatta di idee nobili, di gentilezza, di rispetto. Ora sperava che quello fosse il luogo e di esserci in mezzo. Era da tutta la vita che cercava quel posto, in quel momento ne prese coscienza. Si era sempre sentito estraneo ai luoghi in cui era nato e cresciuto. Si era sempre sentito vittima di un ricatto troppo grande, da quando a 12 anni gli avevano chiesto di lavorare come bracciante per i padroni. Si era sempre sentito esule, seppur circondato di persone fedeli allo stesso ordine. Lui non aveva bisogno della falsa sicurezza degli ordini e lì, in quel luogo che aveva raggiunto dopo infinito cammino e incommensurabile estraniazione, fra il Bosco di Cielo e Castagni, il Fiume del Silenzio Parlante e la Casa dello Spirito Amico, decise di non fuggire più.

Si mosse con calma. Si risollevò da terra e si incamminò verso la casa e il fiume. Si guardava attorno stranito, come se vedesse qui luoghi per la prima volta. Quei tre elementi gli avevano dato la patria. Non sapeva chi li aveva creati, né chi li aveva messi vicini. Sapeva che erano profondamente connessi ma non capiva come. Non desiderava neppure capirlo, voleva soltanto restare lì e diventare parte di quell’alchimia.

Riapparve la cagnolona, la vide appena uscì dal bosco. Quando l’animale gli si avvicinò lui era posizionato davanti alla soglia di casa. Notò che stavolta fra le fauci non teneva un pesce, bensì un quaderno. Era rivestito di cuoio e al suo interno, fra le pagine, era infilata una matita semi consumata, ma ben appuntita.

L’uomo accarezzò la testa della cagnolona mentre le sfilava il quaderno dalla bocca. Lo aprì, era vuoto, ma scoprì che qualcuno aveva già scritto una frase, proprio in cima alla prima pagina bianca.

“Testimonianza della mia vita terrena”.

La frase diceva proprio così.

L’uomo richiuse il quaderno ed entrò in casa. La cagnolona lo seguì e i due si chiusero la porta alle spalle. Mentre fuori il fiume e il bosco frusciavano, accompagnando un altro giorno verso il buio riposante della notte, l’uomo iniziò a scrivere, perché lui adesso esisteva.