Racconto breve
Racconto breve
La madre di Lennon
La madre di Lennon
di Matteo Beltrami
racconto breve pubblicato sulla rivista Articoli Liberi
marzo 2024
La madre di Lennon
Beltrami Matteo
La mamma la vedeva già abbastanza grottesca così com’era, con quel suo modo melodrammatico di stare al mondo. Quel suo modo lagnoso di ostentare le emozioni capace di sfinire; con tutte quelle sue chiacchiere incessabili su tutti i temi della vita, come se l’ascolto della sua opinione fosse una necessità collettiva. Da qui i continui post sui social, ai quali lui non aveva ancora accesso, ma che lei gli mostrava con solerzia, leggendoli ad alta voce, in una retorica strategia pedagogica che chiamava: “abitudine all’uso consapevole della tecnologia”. Ammiccava muovendo lo sguardo dallo schermo a lui in cadenze regolari che lo affaticavano, mentre ripeteva con tono fiero le frasi, già divenute di dominio pubblico, scritte sul cellulare per lunghe mezzore che avrebbe potuto dedicare ad altro, come a tacere, per esempio. Prima di alcune espressioni diceva veloce “ah sì questa spacca” e le rileggeva perfino più volte, come nella speranza che suo figlio se le ricordasse e le rendesse ai posteri un giorno.
“OGGI HO LETTO UN ARTICOLO SULL’INQUINAMENTO DELLE FALDE FREATICHE PROVENIENTE DALLE FECI CANINE. SI STIMA CHE OGNI ANNO, LE FECI E LE URINE DEI CANI VADANO A SOMMARE CIRCA 5 KG DI FOSFORO E BEN 14 KG DI AZOTO NEL TERRENO. LE PIOGGE OVVIAMENTE FANNO IL RESTO, FACENDO FILTRARE LE SCORIE FINO ALLE FALDE. FORSE STA INIZIANDO UN’EPOCA IN CUI DOVREMO GUARDARE CON MAGGIORE SOBRIETÁ ANCHE ALL’ADOZIONE DEI NOSTRI AMORI PELOSI, E LO DICO CONTRO IL MIO INTERESSE, OVVERO DA PADRONCINA DI UNA CREATURA STUPENDA. A BETTER WORLD IS POSSIBLE, WAKE UP PEOPLE.”
Finite le letture, solitamente lo chiamava a sé e gli mostrava la fotografia che aveva scelto come immagine del post, zoommandola con quei suoi polpastrelli che lui faceva fatica a guardare.
A lui queste cose davano fastidio, le reputava esagerate, rumorose. Provava il senso di violata decenza che a suo modo di vedere avrebbe dovuto provare la madre. Ci mancava solo un libro. “Porca puttana”, mormorò. Conoscendola lo avrebbe promosso a tutto campo, rompendo le palle dalle parrocchie alle associazioni sportive e magari l’avrebbero perfino chiamata a parlarne alla TV locale, o alla radio e lei, indiscreta patologica, avrebbe ringraziato suo figlio in diretta, facendo nome e cognome e magari dicendo frasi del tipo “i bambini ci insegnano, i bambini ci ispirano, grazie di esistere mio amato Lennon, questo libro è dedicato a te”. “Fanculo”, pensò.
Lui si chiamava Lennon e aveva 13 anni. I suoi genitori, Lucia (che chiedeva di farsi chiamare Luz, perchè in spagnolo vuole dire luce) e Filippo (lui invece trova simpatico Pippo), poco più che quarantenni, gli avevano raccontato di essersi conosciuti nella loro fase hipster, che lui in seguito aveva osservato nelle sue derivazioni postume nel seguente ordine: fase della rinnegazione dell’hipsterismo in quanto surrogato meramente estetico di un pensiero libertario nonché nostalgia di epoche in sostanza ormai passate dunque non ripercorribili. Fase dell’orticoltura e artigianato gastronomico perché attività non-mentali e per eccellenza evocative di epoche ormai passate, ma in un tal certo senso ripercorribili. Fase della rinnegazione di pensieri politici sinistroidi perché in fondo non è che destra sia fascismo per forza e comunque loro (i destri ex nemici) vanno al dunque delle questioni anche senza accorgersene e con meno intellettualismo. Fase del voler abitare in una casa di montagna e affittare la stanza in più a residenze artistiche. Fase del voler abitare in città e adibire la stanza in più a b&b. Fase della risoluzione dei conflitti latenti con i loro genitori rispettivamente suoi nonni, con successiva e strettamente conseguente fase (sfarzosamente dolorosa) dell’elaborazione di non meglio definiti traumi infantili. Fase del voler vivere in un eco-villaggio al sud, con messa in discussione in toto e poco particolareggiata del sistema sanitario-economico nazionale. E per ultima, la fase ancora in corso, quella del “restare”, del “mettere radici”, dell’impegno comunitario e sociale farciti, anzi, imbottiti di un modo di vivere bambino-centrista (il bambino era lui, Lennon-nome-da-mito) e di una costante critica al sistema scolastico nel quale lui (il bambino Re) era inserito. Il fatto non tralasciabile che uno specialista, attorno ai suoi 10 anni, gli avesse misurato un quoziente intellettivo superiore alla media, risultava essere un aggravante di tutto il funzionamento già altamente cervellotico e volubile di Luz e Pippo. A causa di quella diagnosi di APC (Alto Potenziale Cognitivo) era iniziata la grande battaglia fra loro, come nucleo familiare, e la civiltà che li circondava. Una guerra erudita fatta di polemiche scritte aulicamente su mail (PEC) inviate come prioritarie alla volta della direzione scolastica. Una guerra le cui trincee erano gli schermi dei laptop o degli smartphone e i cui gradi militari erano i titoli di studio accademici delle parti. Le armi usate erano rappresentate, in prevalenza, da minacce velate, teorie pedagogiche estrapolate da antologie o libri di didattica di ogni epoca, raccolta di testimonianze di altri genitori di prodigiosi figli. Il fatto, di per sé drammatico, era che una delle uniche cose sulle quali i suoi erano ancora d’accordo, riguardava la presunta inadeguatezza del livello d’istruzione della scuola media in cui Lennon era, a detta loro, “posteggiato”. Luz e Pippo lo volevano già iscrivere al liceo. Era una guerra fra loro e lo Stato, insomma, per la conquista di un idealistico posto nel mondo per il loro unico, creativo, logico-deduttivo, scientifico, geniale, sensibile, affascinante, altamente cognitivo, fisicamente bello da guardare figlio Lennon.
E Lennon provava imbarazzo. Imbarazzo e stanchezza. Avrebbe voluto soltanto giocare a calcio, provare la birra, baciare le femmine e non chiamarsi di nome con il cognome di un mito che non aveva conosciuto, che non gli apparteneva e che a suo modo di vedere ormai attecchiva nell’immaginario collettivo solo perché la sua faccia occhialuta si prestava bene per qualche post.
Lucia detta Luz si definiva spesso “madre nelle viscere” e ogni volta che lo ripeteva Lennon chiudeva gli occhi e bestemmiava a bassa voce, provando ribrezzo per quell’espressione un po’ melensa e un po’ disgustosa. Lei era un’educatrice cinofila e una psicoterapeuta (di persone), attivista femminista con dei trascorsi, seppur poco significativi e ormai risalenti ai tempi del liceo, di militanza politica che non mancava di ricordare sulle sue numerose pagine online. Organizzava e moderava gruppi di attività madri-bambini e promuoveva una visione dell’infanzia basata sulla venerazione di ogni scoreggia che i cuccioli di uomo producevano. Se il bambino piangeva in realtà non faceva i capricci, ma ci stava insegnando qualcosa tramite un linguaggio non filtrato da maschere umane. Se il bambino non dormiva in realtà non aveva le coliche, o fame, o voglia di cagare, ma sentiva che nei suoi sogni c’era un pericolo e stava dunque vegliando il suo subconscio in un modo che gli adulti avevano disimparato. Si, sua madre era un’intrippata della puerizia. Per abbigliarsi prediligeva materiali come la lana cotta e il feltro, comprava gli abiti in una boutique alternativa del centro chiamata “Vulva la libertà”, nome ispirato alla per poco quasi omonima canzone (purtroppo per il negozio, ma per fortuna per la canzone) “Viva la libertà” di Bruno Lauzi. La titolare era Morgana, un’amica d’infanzia della madre che si era tatuata una vulva semi aperta sull’avambraccio. Era così che Lennon aveva visto una fica per la prima volta, quando aveva 10 anni. Morgana se l’era appena tatuata ed era corsa da Luz per bere un caffè di cicoria e mostrargliela. Si era premurata subito di sollevare il cerotto che le copriva il tatuaggio e avvicinare il braccio ai volti di madre e figlio.
“Vedi Lennon? È il disegno dell’organo sessuale femminile. È sacro, l’umanità deve proteggerlo e andarne fiera, come se fosse un fiore magico capace di cambiare il mondo. “
I contorni del tatuaggio erano imbrattati di sangue e pomata. Lui aveva distolto lo sguardo, arrossendo e fissandosi le ginocchia.
“Non c’è nulla di cui vergognarsi Lennon, sai?” Era intervenuta sua madre. “Quella poi è la vagina di Nabila, la compagna di Morgana, ti ricordi di Nabila? La tatuatrice ha fatto prima un ritratto e poi l’ha incisa sulla pelle di Morgana.”
Lui aveva scosso la testa e aveva chiesto di poter andare in camera sua. Entrambe le donne avevano fatto di sì con la testa, ma lui aveva percepito una specie di delusione in quella loro concessione. Allontanandosi aveva sentito Morgana che bisbigliava:
“Ci vorrà tempo, un influsso maschile del vecchio retaggio è imprescindibile, è nel sangue.”
Lennon comunque reputava la boutique di Morgana eccessivamente cara, per lui era assurdo spendere così tanto per dei materiali tutto sommato rudimentali. Ma aveva capito in fretta che l’apparire alternativi, in realtà, da un punto di vista economico, non era fra le cose più intelligenti. Inoltre sapeva che sua madre si sentiva obbligata ad acquistare qualche capo, ogni tanto, da “Vulva la libertà”, per sostenere Morgana, per sostenere “la sua lotta”, come diceva ogni tanto. Ma a quale lotta si riferisse, lui, non lo aveva ancora capito.
Lucia amava anche costruirsi le collane con le cialde del caffè schiacciate e questo a lui faceva letteralmente schifo. Era astemia ed era pressoché ossessionata dal cibo salubre e questo a lui, faceva venire voglia di rubare, sempre più spesso, qualche sorso da una damigiana di vino bianco che stava nella cantina dei vicini di casa, e di mangiare schifezze, anche queste rubate in qualche chiosco, per il semplice gusto di profanare l’immagine assiomatica che la madre nelle viscere voleva dare di sé.
“Voi della vostra generazione siete ossessionati dalla salute mamma, forse perché l’avete persa quando ancora eravate piccoli.” L’aveva provocata una volta, dopo che si era ritrovato nella condizione di doverla attendere per mezz’ora, al supermercato, mentre sceglieva delle fette biscottate.
“Ma di cosa parli? Sei il solito pessimista. Leggere i contenuti degli alimenti che ingeriamo è una nostra responsabilità.” Aveva squillato lei entusiasta mentre fotografava con il telefono il retro di una scatola di fette all’avena, con una bandiera finlandese stampata sul davanti. Aveva mandato la foto a un gruppo WhatsApp di altre super-madri (Madri Connesse, questo era il nome) prima di proseguire. “E poi devi pensare meglio alla persona con la quale parli quando affermi certe cose. Io vado ad arrampicare quasi tutte le sere, sono monitrice della squadra di nuoto madre-bambino e promuovo la salute con il progetto “danza con il tuo neonato”. Se vuoi facciamo una sfida a running, chissà chi la spunta?”
“Brava, sei forte, ma io non parlavo della salute fisica, quella è una specie di regalo che ti fa la natura fintanto che le vai bene, chissà per quale sua segreta ragione, poi. Parlo della salute mentale. Siete tutti matti. Siete come persi, ma pretendete di essere delle guide per noi figli.”
“Senti un po’ Lennon, stasera mi fai vedere cosa stai leggendo, ok? Hai di nuovo rubato Nietzsche dalla libreria di papà?” Aveva risposto lei senza prenderlo sul serio.
Lui allora se n’era andato scuotendo il capo, lasciandola all’estenuante irrisolutezza del suo rapporto con il cibo. Aveva strisciato i piedi fino al reparto libri e aveva rubato una rivista di tatuaggi, se l’era infilata fra il ventre e i jeans e l’aveva nascosta in un gesto stizzito con il camicione rosso e verde di flanella.
Nella sua geografia immaginaria la madre era una specie di polo dal quale lui sapeva di doversi progressivamente e inesorabilmente distanziare. Non le voleva somigliare nemmeno un po’, nemmeno fisicamente e questa in realtà era una sua paura. Alle volte si portava in camera due specchietti e osservava da vicino alcuni dettagli del suo corpo. Angoli reconditi della sua nuca, il retro del collo, le piante dei piedi, il culo, le scapole. Trovava strano non avere la stessa paura di paragone con la figura umana del papà, ma riconosceva anche che l’uomo-padre non rientrava quasi mai nei suoi termini di paragone, come se fosse fuori concorso.
Ma si accennava a questo libro: la donna dapprima aveva iniziato a buttar là qualche frase ogni tanto, mentre facevano la spesa, o durante la colazione.
“Potrei scriverci un libro su queste cose. In fondo se non lo scrivo io un libro, chi lo potrebbe fare? Potrei anche vederla come una mia responsabilità, no? Ci sto pensando insomma.”
E poi si era fatta più insistente. Ma nessuno aveva capito che stava cercando consensi. Il fatto era che blaterava sempre troppo di tutto. Come avrebbero potuto distinguere l’entità delle cose che diceva sul libro?
“Sono psicologa e addestratrice cinofila. Io dico che risulta necessario, al giorno d’oggi, un libro che intersechi questi due ambiti. C’è ancora troppa sofferenza nelle relazioni uomo-cane.”
Alternava queste esternazioni ed altre ancora, in maniera del tutto estemporanea. Le prime volte lui le udiva, ma senza ascoltarle, indaffarato a preparare lo zaino di scuola o a infilarsi i roller per farsi un giro. Poi quelle allusioni aumentarono la frequenza e intercettarono una sua forma di allerta inconscia. Proprio così, qualcosa in lui aveva capito che quelle frasi materne sarebbero diventate altro. Al momento però non ottenevano ancora nessuna risposta verbalmente articolata e cosciente, qualcosa insomma che esulasse da suoni quali: “mh, mh”; “wow”; ah”. Lui però aveva 13 anni e sua madre non avrebbe preteso di più da una creatura che stava attraversando, della propria evoluzione organica, secondo lei e testualmente: “la fase per eccellenza più indisponente.”
Tutt’altro era il discorso riferito al padre e marito della triade familiare, Pippo, anch’egli testimone fisico delle materne allusioni rivolte al progetto del libro. Nemmeno il padre, seppur dopo settimane, aveva ancora capito di cosa avrebbe mai parlato quel fantomatico libro. Si guardava bene dal chiedere ulteriori spiegazioni. Ma se l’adolescente era giustificato, lui no. La madre stava covando un senso di deprimente invisibilità, che però ben presto, sapeva, sarebbe riuscita a tramutare in un’efficientissima arma di ritorsione emotiva.
La storia era questa: lei ogni tanto accennava alla voglia di scrivere e poi osservava le reazioni. Il figlio la guardava annuendo, masticando, grattandosi la pianta di un piede, lavandosi i denti o altro ancora, ma senza mai farle nessuna domanda.
Anche il marito la fissava, ma sorridendo, facendo di sì con quella sua piccola testa calva per metà e per l’altra metà adornata da una peluria debole color moka. Capelli mai abbastanza lunghi da sbucare da sotto il cappello, mai abbastanza corti da conferire ai lineamenti del viso una benché minima traccia di affilatura. Farfugliava roba insulsa tipo “fantastico amore”, “eccezionale amore”, “top, amore”. E nemmeno lui domandava mai nulla.
“Fantastico amore una bella minchia. Manco mi stai ascoltando, omino flaccido con la pelle color porcellino e il culo piatto da informatico statale.” pensava lei ripensando a quando una dozzina di anni prima si erano conosciuti e lui l’aveva colpita raccontandole del suo progetto di aprire una ciclo-officina libreria alternativa dove si produceva anche birra artigianale IPA, si affilavano coltelli e si riparavano pentole. Avevano 30 anni e per tutto il giro di amicizie era iniziata una specie di tacita e istintiva corsa alla fecondazione. Rimanevano incinta donne che tradivano il fecondante fino a pochi mesi prima, e viceversa, ma si sa, la paura dell’abisso della solitudine porta l’essere umano alla grazia del perdono. Luz rimase incinta quasi subito. Lui la ciclo-officina non la aprì mai. Per un po’ si era dedicato a una formazione per diventare sommelier, ma poi aveva capito trattarsi di una tecnica “troppo invasiva” (disse testualmente).
“Non vorrei mai arrivare al punto di sviluppare un rigetto verso il vino, allergie o roba simile. Ci tengono con il naso infilato nei bicchieri per 4 ore alla settimana sai amore? Roba tosta, il rischio è dietro l’angolo.” Le aveva detto una sera a cena fissandola con uno sguardo colmo di raziocinio.
Qualche giorno dopo aveva ventilato la possibilità di partire per un viaggio in bici fino a Mosca, ma lei era gravida e lo aveva fucilato con uno sguardo.
“Ho fatto i calcoli amore, sei al quarto mese, spingendo un po’ e bruciando qualche tappa sarei di ritorno il giorno prima del termine.”
“Senti che boria, ma se non riuscivi a tenere il naso nell’odore di vino rosso, come pensi di poter pedalare fino a Mosca?”
Pippo allora aveva rinunciato a quello che nella sua testa ormai era “il viaggio della vita” e agli amici, fra un aperitivo e l’altro, allargando le braccia, aveva cantilenato frasi del tipo: “a un certo punto ho dovuto scegliere e ho scelto la famiglia”. A tutti lasciava però a intendere che Lucia lo aveva implorato di non partire.
Poi aveva ventilato la possibilità di trasferirsi in Islanda, stavolta insieme alla moglie e al suo pancione. Lei apprezzò e rimase feconda anche di questa idea. Per un periodo i due avevano pubblicato su Facebook articoli di analisi sociopolitica e culturale sull’Islanda, sempre allegando qualche bella foto o frasi del tipo “the direction is the magnificent north”. Un’amica di lei dopo l’ennesimo post aveva commentato:
“Ultimamente postate una marea di cose sull’Islanda ragazzi, non starete pensando di farl@ nascere lì?”.
Pippo aveva messo un like al commento, Luz aveva risposto:
“Chissà”, con una di quelle faccine che ammiccano.
Poi era nato il piccolo, lo avevano chiamato Lennon, si erano dichiarati più maturi e avevano deciso di non cambiare assolutamente nulla della loro vita, perché adesso lui veniva prima di ogni altra cosa.
Quella sera era la terza o la quarta volta che la madre tirava fuori il discorso sul libro durante la cena, quando dopo un altro aggettivo fintamente incoraggiante di Pippo e un’altra scena muta di Lennon, la donna si alzò di scatto con espressione offesa, ma pur sempre farcita di un sorriso tenue. Era sparita sbattendo i talloni nudi sulle piastrelle.
“Non picchiare i piedi amore, che sotto sentono…” Aveva cantilenato l’uomo senza distogliere lo sguardo dallo smartphone, con la bocca piena di quinoa alla curcuma.
Lennon aveva dato un’occhiata al viso di suo padre, senza capire da quale alterità fosse rapito. Guardò verso lo schermo che stava sgrillettando mentre masticava la roba andina e riuscì a sbirciare cosa aveva appena scritto sul motore di ricerca: “calorie cetrioli”. Aveva scritto così. Premette sull’icona della lente d’ingrandimento.
Il ragazzo allora guardò lo guardo del padre e lo vide autenticamente interessato da quello che google gli stava facendo leggere. Scosse il capo e si alzò per andare a vedere dove fosse sparita sua madre. Ma lei stava già tornando e in mano aveva un bloc notes in carta di riso, un calamaio colmo di china blu e un’eccessiva piuma di struzzo lunga mezzo metro.
“Ma tu scrivi con questa roba mamma?” Disse lui per canzonarla, senza trattenere una sghignazzata.
“Ti stupisce? Ci sono molte cose che non sai di me!” Rispose lei fieramente, credendo di averlo appena impressionato.
Il ragazzo si rimise seduto, tutto sommato incuriosito. La madre stava ancora sbattendo quei suoi talloni larghi, trascinò rumorosamente un paio di volte la sedia e riprese posto anche lei.
“Adesso mi ascoltate, questa è una cosa importante per me, e voglio condividerla in tutto e per tutto con voi, che siete il mio clan. Ho torto? Ditemi se ho torto.”
“Clan? Ma cosa siamo scozzesi?”
“Lennon, lascia parlare la mamma.” Fece il padre.
“Come sei fragile, mamma.”
La madre a quelle parole si pietrificò, evidentemente quell’osservazione era troppo per lei. Con fare solenne, come ferita a morte in qualcosa di santo, portò un foglio di scottex davanti agli occhi e iniziò a piangere.
Il padre ne approfittò per dare ancora un’occhiata al telefono, continuando a leggere i valori nutrizionali dei cetrioli. Lui prese a grattarsi sotto al mento, un po’ nauseato, in attesa che lo psicodramma materno si esaurisse.
E in effetti si esaurì.
“Bene, mi sono sfogata, una madre sopporta tutto. Prima di venire pugnalata gratuitamente, volevo solo chiedervi cosa ne pensate di alcuni titoli che ho ideato per la mia opera…” Disse tirando su con il naso.
“Certo tesoro, dicci pure.” La incoraggiò il marito affabile, senza tirare via un sottile e bianchiccio indice dallo schermo del suo cellulare.
“Ma li volete sentire veramente? Non voglio imporvi nulla sapete? Potrai essere spietato quanto vorrai, poi, Lennon, ma almeno ti avrò coinvolto.”
I due uomini di casa rimasero in silenzio al tavolo della cucina.
“Grazie, grazie mille per la vostra attenzione e scusate il momento di sconforto di poco fa, è solo che ci tengo e al contempo temo di non essere all’altezza di una cosa così grande. Sarà un libro importante.”
Il ragazzo non si mosse, il marito annuì chiudendo gli occhi in segno di comprensione. Poi la donna, senza ulteriori preamboli, recitò i titoli che aveva pensato per il suo libro:
“Non strattonarmi padroncino!”; “Il tuo cuore con le zampe”; “Segui il tuo cuore con il guinzaglio”; “Il tuo cane è una guida”; “Ascoltami padroncino”; “Vola in alto con me, padroncino!”.
Appena finita la lettura la madre si portò la mano davanti alla bocca e si lasciò andare a un ulteriore e insopportabile momento di commozione.
“Scusate, scusate tanto, è una cosa grande per me.” Fece una pausa e scrutò i due.” Cosa ne pensate allora?” Chiese.
“Amore, sono tutti straordinari, posso soltanto farti notare che dici sempre “padroncino” e mai “padroncina”? Quando portiamo fuori Apollo vedo molte padrone di cani donne, forse potrebbe crearsi un equivoco.”
“Pa, immagino che la mamma abbia scritto questi titoli solo indicativamente, la questione di genere non è rilevante adesso. Piuttosto mi chiedo perché non dica semplicemente padrone.”
“Grazie Lennon, avrei risposto la stessa cosa. Ma ringrazio anche te, Pippo, per l’importante suggestione.
“La mia domanda, invece, riguarda i contenuti.” Proseguì il figlio. “Di cosa parlerà il libro?”
“Oh Lennon, caro, non vedevo l’ora di raccontarvelo. Voi conoscete la mia trentennale esperienza in ambito cinofilo. Quest’anno compirò 42 anni e posso tranquillamente affermare di essere fra le persone più esperte della zona. Ho avuto cani da quando avevo 10 anni. Vorrei dunque scrivere un manuale su come rispettare meglio le richieste e le esigenze del proprio frugolo.”
“Le richieste dei cani, mamma? Parlerà di questo il tuo libro?”
“Esatto, una specie di vocabolario uomo-cane, ma basato sui comportamenti. Gli uomini e i cani hanno relazioni squilibrate, in cui l’uomo ha la pretesa di prevalere sull’animale.”
“Ma l’uomo non deve prevalere? Trovo sia giusto che prevalga.”
“In che senso Lennon?” Gracchiò Luz.
“L’uomo è il suo padrone, no? Il cane ha bisogno di una guida, è come un bambino.
“Ma Lennon, amore, non è così. Cani e bambini possono a loro volta essere le guide delle persone adulte. Questo instaurerà una migliore intesa e una relazione più distensiva, amicale.”
“Dici che questo vada bene per l’educazione?”
“Se permetti, dalla mia esperienza, sostengo di sì.”
In quel momento in ragazzo pensò al fatto che la donna, in realtà, viveva le sue giornate succube del loro pastore svizzero, Apollo, al quale aveva dato il nome di un altro mito e che di fatto venerava, per davvero, come se fosse il centro dell’universo. Il risultato era stato quello di ritrovarsi fra le mura domestiche una bestia spesso stizzita, capricciosa, mai soddisfatta, poco affidabile, aggressiva con gli altri cani e cocciuta in un modo estenuante. Fu inevitabile, per Lennon, chiedersi per quale cazzo di motivo, a sua madre, fosse venuto in mente di scrivere un manuale su come vivere in armonia con un cane.
Poi, inaspettatamente, stupendosi di non esserci arrivato prima, rimase folgorato da una visione di sé stesso. Si paragonò ad Apollo e forse per la prima volta si chiese in maniera del tutto lucida:
“E a me? Come mi hanno scresciuto?”
Nella sua super materia grigia si aprì un varco che lo avrebbe cambiato per sempre. Pensò a come lo avevano chiamato. Lennon. Francesco non andava bene? Non erano abbastanza nobili, nell’immaginario collettivo, nomi come Andrea, Giorgio, Riccardo o al limite, se proprio avevano bisogno di far sapere a tutti che loro ripudiavano l’italianità di massa: Thomas, oppure Loris? Lucia gli aveva sempre assicurato che quel nome era stato scelto perché per loro simbolizzava la lotta a tutela della bellezza della specie umana. Lui però non aveva mai visto, neppure in cantina, in qualche borsa dei loro oggetti di gioventù, un disco dei Beatles. “Mi hanno mitizzato” mormorò. Si ricordò nel giro di qualche secondo di tutti i perseveranti tentativi materni di iscriverlo, già in tenera età, ad accademie e corsi di ogni tipo: tiptap, flauto traverso, pianoforte, basket, boulder, pelli di foca, scuola di volo per bambini, cesellatura del fimo, inglese informatico, inglese gastronomico, permacultura. Lui non era riuscito ad evitare nessuna lezione di prova. Era piccolo e lei era troppo influente, o meglio, infidamente insistente. Immancabilmente però, dopo le lezioni di prova abbandonava i corsi, con l’unico risultato di aver provato un po’ di tutto, roba sofisticata e sensazionale perlopiù, ma di non aver mai approfondito nulla. Per non parlare del fatto che più lui abdicava e più lei tornava alla carica con discipline sempre più inconciliabili con la sua voglia di normalità. Più la sua infantile età avanzava, inoltre, più lei alimentava la tendenza ad alzare il grado di difficoltà delle proposte formative. L’anno prima, illuminata dalla diagnosi di Alto Potenziale, era riuscita a farlo partecipare per un mese di fila (era un mese di prova) a un corso per l’apprendimento precoce della lettura veloce e memorizzazione di libri classici.
“Potresti arrivare a 15 anni e aver già letto i grandi libri cult. I fratelli Karamazov, Moby Dick, Cent’anni di solitudine, Pinocchio. Di norma per leggere libri così importanti si impiega troppo tempo, tu li sapresti leggere in pochi giorni. In questo modo avresti più tempo e spazio cerebrale per dedicarti al liceo e scegliere con calma la facoltà che più ti si addice.”
“Ma mamma, ho 12 anni, non so ancora se voglio fare il liceo. E poi tu quei libri nemmeno li hai letti.”
La donna, che stava guidando il Volkswagen California semi-elettrico familiare, aveva riso di gusto, come intenerita, ma tutt’altro che intenerita.
“Perché ridi? E se volessi fare il meccanico di moto?” Aveva insistito lui allora.
“Il meccanico di moto? Con un QI di 140?” Disse lei senza perdere quel suo sorriso di cemento. “Certo amore, quello che ti andrà di fare”
Avevano taciuto, ma per poco.
“Documentati bene però, ho letto che il mercato delle moto è in declino. Fossi in te punterei piuttosto all’ingegneria elettronica. Un giorno le moto…”
Lui aveva smesso di ascoltare. Osservava il mondo scorrere fuori dal finestrino e rimase zitto per un altro po’, attanagliato da un nodo in gola che non sapeva cosa fosse.
“Tu non lasci il tempo alle cose di nascere.” Aveva detto sommessamente.
“Come dici? – Aveva chiesto lei con qualcosa di isterico nella voce, abbassando il volume dell’audiolibro de Il Capitale, di Marx.
“Tu le esperienze non le vivi, le consumi, le bruci. Mi metti l’ansia. Lasciami annoiare.”
La madre aveva emesso un altro risolino e gli aveva accarezzato la nuca benevolmente.
“Il mio intellettuale tenebroso, cerchi sempre di colpire nel vivo, sei speciale e acuto, Lennon.” Aveva concluso lei.
Lennon tornò a focalizzarsi sulla realtà presente. Sentiva che sua madre e suo padre stavano ancora conversando, apparentemente in maniera diplomatica e pacata, ma lui sapeva che quello era il loro modo di litigare.
“Amore, non sto dicendo di saperne più di te.” Balbettava lui. “Dico soltanto che bisogna stare attenti al selciato che si calpesta.”
“Ho capito, è la terza volta che me lo ripeti, ma non capisco dove vuoi andare a parare con questa metafora. Mi stai forse avvisando del fatto che un libro di questo calibro potrebbe destare antipatie o addirittura conflitti? E anche se fosse? Lo sai che ho sempre avuto le palle di dire quello che penso. Là fuori ci sono troppe persone che fanno soffrire i propri cani senza neppure rendersene conto, Pippo. E lo sai perché? Perché non stanno bene loro! Sto parlando di un libro che può diventare un nuovo percorso verso la vera armonia. L’armonia. Il pane della nostra epoca.”
“Guarda amore, fai tu. Ho piena fiducia nel fatto che sai quello che stai facendo.”
“E infatti è così. E tu Lenny cosa ne pensi?” La madre aveva nuovamente rivolto verso di lui quel suo sguardo implorante e sempre pronto a farti pesare qualche sua emozione.
“Cosa ne penso di cosa?”
“Improvvisamente ti sei incupito. Vorrei vederti più coinvolto. La tua opinione è sempre contata molto per me. Potrei perfino farti scrivere una prefazione. La parola di voi bambini è sacra sai?”
Lui la fissò, improvvisamente stordito.
“Sacra? Ma no, siamo solo bambini, perché ci date la responsabilità dei regnanti?” Disse con tono flebile.
“Oddio frugolo, stai poco bene?” Ansimò Lucia immediatamente in apprensione, stendendogli una mano sulla fronte.
“Bene, bene…” Mormorò lui scostando la testa perché non gli piaceva essere toccato da lei.
Stava riprovando quello stesso nodo in gola che non sapeva neppure da dove venisse. Eppure c’era, una specie di oscura e profonda, profondissima malinconia. Si sentiva senza riferimenti. Si sentiva perso, senza appigli, senza radici. E che strano fu ricordare come poco tempo prima, aveva pensato la stessa cosa dei suoi. Sui suoi occhi apparve una membrana liquida, bagnata. La madre non si dette neppure il tempo di valutarla. La commentò immediatamente. Lo fece con tono conciliante, basso, come per lasciare a intendere che lei le lacrime le capiva sempre e immediatamente. In realtà lei nelle lacrime ci sguazzava, non le interessava capirle.
“Lennon, c’è qualcosa che possiamo fare per te? Vedo che soffri.” Disse con tono melenso.
“Lasciatemi un po’ in pace, non desidero nulla, lo volete capire?” Aveva detto lui prima di alzarsi ed avviarsi verso camera sua, asciugandosi gli occhi con le maniche della felpa.
Provò un senso di calma lasciandosi alle spalle quei suoi due genitori eccessivamente pensanti, iper prestanti, che ti volevano sempre entrare nel cervello, che ti volevano sempre smagliante, fantastico, eccezionale, al top, che ti cedevano volentieri il ruolo di adulto, anche se gli unici adulti erano loro. Che volevano esserti amici.
Lungo il corridoio prese semplicemente a pensare a quale gruppo musicale mettere nello stereo, una volta che si sarebbe chiuso la porta alle spalle. Poi udì un’ultima frase di sua madre, rivolta a suo padre, raggiungerlo dalla cucina come un eco persecutorio.
“Penso che domani chiederò un colloquio al preside della sua scuola. Non me la racconta giusta. È da troppo tempo che lo vedo sfinito, triste. Starà capitando qualcosa con qualche docente, è pieno di incompetenti. Potrei anche approfittarne per chiedergli se quando il libro verrà stampato potrò andare a presentarlo a scuola, nella sua classe. L’apprendimento dell’armonia animale-uomo inizia presto. Potrei anche scriverlo a quattro mani, insieme a Lennon, cosa ne pensi Pippo?”
Il ragazzo chiuse la porta di camera sua a chiave. Aveva solo voglia di sparire.
“Non mi strattonare, porca puttana, padroncina.” Bisbigliò dopo essersi sdraiato sul letto, poco prima che Siamese Dream, degli Smashing Pumpkins, iniziasse a srotolarsi dallo stereo. Fu un ascolto lungo, lento, bagnato di lacrime finalmente libere. Attraversò un varco dal quale non tornò mai più. Sentì un vento entrargli dalla finestra, veniva da fuori, lo voleva portare via.
Quella notte, per la prima volta, la prima di molte altre volte, si sarebbe calato dalla finestra e sarebbe scappato di casa, attraversando il suo giardino e oltrepassando il cancello. Avrebbe vagato per la città provando una calma della quale si sarebbe subito innamorato. Avrebbe dormito in una bibliocabina, fino a quando una pattuglia lo avrebbe notato e riportato a casa. Sulla faccia avrebbe avuto un nuovo sorriso, aveva capito come liberarsi dalla violenza, bastava fuggire. Nessuno glielo avrebbe mai più potuto impedire.