Racconto breve
Racconto breve

La merda e il pane
2024
Non sono di certo due cose che si vedono insieme, la merda e il pane. Tutti concordano nel volerle mantenere ben separate. Gli architetti costruiscono i cessi distanti dalle cucine. Sono agli antipodi, la merda e il pane, seppur simboli di sinceri momenti.
Camminavo per il quartiere con uno dei miei cani al guinzaglio. Con gli altri cani ero già uscito, ma il vecchio lo tenevo per ultimo, facevamo un giro separato, perché ormai arrancava e aveva bisogno di più calma.
La cosa migliore del giro con il vecchio, esemplare mansueto e stordito, era il crearsi di un ritmo lento che lasciava spazio a un buon primo caffè dal panettiere. Il nostro panettiere faceva anche i caffè, così, ogni due mattine, dopo aver comprato un filone ai cinque cerali da poco sfornato, gli chiedevo anche un caffettino. Mi sedevo su uno sgabello a ridosso del bancone per sorseggiarlo, con il vecchio fra le ginocchia che mi fissava, dal basso, perché sapeva che gli passavo i biscotti. Quella mattina mi sentivo ispirato, il sapore malinconico del caffè mi avvolse i pensieri e me li cullò in ciò che di più placido c’era in quell’alba autunnale. Guardavo i passanti assonnati camminare sui marciapiedi, fuori dalla vetrata. Poi io e il vecchio uscimmo dalla panetteria e ci incamminammo verso casa. Fu allora che, svoltato l’angolo, il vecchio trovò il posto giusto per regalare alla stessa mia alba una massiccia cagata, di tutto rispetto. Mangiava ben, il vecchio.
Il vecchio non voleva che lo guardassi mentre la faceva, lo aveva sempre messo a disagio, sin da cucciolo, così fissai lo sguardo su qualche piccione mentre il suono del traffico cresceva. Il camion dell’immondizia, un bus, un tram, la raccolta del vetro, la signora anziana con la vettura lurida che amava il clacson. Il tempo di alcune dimenticabilissime elucubrazioni e il vecchio mi stava avvisando di aver finito, con un tocco del muso sul ginocchio. Reggendo il sacchetto del pane e il guinzaglio del vecchio con la mano sinistra, insacchettai la sua merda con la destra, per poi riprendere il cammino verso casa. Verso un nuovo silenzio, la penombra, il jazz. Mi sentivo un padrone più giusto, mi sentivo un cittadino più pulito perché mi portavo via la merda. Peraltro il quartiere era disseminato di stronzi, approfitto di questo racconto per segnalarlo alle autorità. San Salvario, Torino, zona Piazza Madama e dintorni. Bello eh, ma pieno di merda.
Il sacchetto del pane oscillava appena, il suo movimento combaciava con quello del tenue andamento del vecchio. Il guinzaglio, quando c’era attaccato lui, aveva smesso di tendersi da almeno un paio di anni. Il sacchetto con la merda invece mi ballonzolava dall’altra parte in modo più frenetico, emettendo dei plastici fruscii. La sua traiettoria cercava un cestino, ma io sapevo che di pattumiere non ne avremmo trovate di lì a casa, e che quel sacchetto sarebbe finito nella spazzatura che tenevo in un bidone, sul mio balcone.
Il tempo di raggiungere il portone del condominio e uscì l’avvocato Fonni, un uomo già molto anziano, sulla novantina, tarchiato e sempre vestito al massimo dell’eleganza. Anche i suoi modi erano sempre formali e l’incontro, per lui, non poteva in nessun caso escludere un saluto, uno di quelli veri, con la stretta di mano salda e un minimo di tre, se non quattro convenevoli: salute, meteorologia, lavoro, temi intergenerazionali. I saluti dell’avvocato dottor Fonni si concludevano sempre con qualche vivissimo complimento, solitamente rivolto a quella che lui reputava la forma smagliante del suo interlocutore o gli inestimabili successi professionali dello stesso.
L’avvocato mi tese la mano immediatamente, appena mi vide, come se stesse cercandomi da tempo e non vedesse l’ora di salutarmi. Avevo il sacchetto della merda del vecchio appeso alla mano destra, pertanto mi fu impossibile, per ricambiare l’entusiasta cortesia, non farlo passare alla sinistra, dove però c’era il pane appena sfornato.
Parlammo, ma io risultai distratto, l’avvocato dottor Fonni me lo confermò.
“Ma dove sta con la testa oggi?” Mi chiese.
Il mio pensiero andava tutti i secondi al contatto dei due sacchetti che reggevo nella mano sinistra. Mi sforzavo nel complicato esercizio del raziocinio, rimarcandomi il fatto che i contenuti erano avvolti da strati di materiali creati chimicamente apposta per evitare contaminazioni. Ma la merda non si poteva avvicinare al pane, questa era l’unica verità che contava per me.
“Complimenti vivissimi per il suo bel colorito, oggi sembra più giovane. Inoltre è da tempo che mi vorrei complimentare con lei per il nobile mestiere che svolge. Non dev’essere facile fare l’insegnante oggigiorno. Ma che dico mestiere? Missione! La sua è una missione! Arrivederla.” Chiuse il Fonni.
Mezz’ora dopo stavo facendo colazione con una tazza di caffè bollente, torbido come la pece, e una fetta di quel pane eccellente, spalmato con il migliore burro valsusino. Non mi godetti affatto il momento, poiché non tanto il pane, bensì il pensiero del pane, risultava contaminato dalla merda, che giaceva inutile fra le bucce di banana e i fazzoletti usati, nel bidone del terrazzo.
Poi pensai al pane come se fosse la bontà, la pace di noi persone, e mi domandai con sana ingenuità: perché, con così tanta facilità, usiamo la pace per spalmarci sopra la merda? Non siamo capaci di proteggere il nostro interiore pane ai cinque cereali artigianale e appena sfornato? È come se lo confondessimo con qualcos’altro, con qualcosa da svendere e imbrattare, lo barattiamo con relazioni tossiche, ruoli che non vogliamo, preoccupazioni irrazionali, fastidi inutili e via dicendo. Se ognuno pensasse al proprio buon pane, tenendolo ben lontano dalla merda, tutti ci ritroveremmo a fare colazioni di gran lunga migliori. Di certo la merda reclamerebbe la propria fetta del nostro pane quotidiano, dandoci degli egoisti, vedendosi privata di nutrimento, ma che belle colazioni, ma che buon pane.
“Peccato che non siamo sempre capaci.” Biascicai.
“E ho anche fatto una figuraccia con l’avvocato dottor Fonni.” Aggiunsi fissando il vuoto.
E mia moglie che non capiva.