Racconto breve
Lui

Racconto breve

Lui
di Matteo Beltrami
Blackout a Torino
A Torino è notte fonda ed è in corso un’anomala interruzione dell’energia elettrica. Una densa macchia di un nero catacombale ammanta la città e sembra volersene impossessare per sempre. I pipistrelli sono tornati nei loro sottotetti, i ratti nei buchi giù al parco e i rospi negli acquitrini degli argini. Non si vedono le stelle, la luna è camuffata dietro a lugubri nubi bagnate. Le persone sono inquiete, nessuno ha voglia di nominare ciò che si sente nell’aria, ma tutti conoscono il suo nome: paura.
I marciapiedi sono viscidi dall’umidità, ma chi nel momento del blackout si trovava a piedi in giro per il Quadrilatero, San Salvario o Vanchiglia, adesso guarda in basso e non li vede più. Non si vede più nulla, solo un buio profondo e c’è chi tentoni ha cercato il pilastro di un portico o la base di un monumento e ci si è aggrappato, rimanendo immobile ad occhi chiusi, bisognoso di un riferimento solido. È in corso una lotta fra la luce e il buio e ogni essere vivente sembra accorgersene. Nel buio pesto si perdono le tracce degli schiamazzi, che diventano bisbigli e nessuno osa bucare quelle tenebre con effimeri fasci luminosi, per timore di intravedere dentro alla loro solennità.
Gli elettricisti di turno del comune non comprendono l’origine del guasto e non ne vengono a capo. Chiamati a un orario assurdo dall’ingegnere capo, si sono trascinati fuori dal letto fino alle loro automobili e senza realizzare la ragione dell’urgenza hanno raggiunto la centrale elettrica. Sono all’opera da circa un’ora, ma non hanno individuato nessuna spia indicatrice, nessun fusibile esploso. Eppure né i lampioni sulle vie, né i comodini degli insonni sono illuminati nel raggio di chilometri.
Gli elettricisti avvertono un inspiegabile senso di smarrimento. Loro, solitamente logici risolutori, si guardano attoniti con gli occhi ancora cisposi dal sonno e uno azzarda fatalista:
-Non ci sono guasti, c’è solo buio.
-Un buio da mettere i brividi, signori, ma diamoci da fare che di guasti ce ne sono per forza. – Balbetta l’ingegnere capo, preda di una seppur intima apprensione, mentre sperando di non essere visto cerca di scorgere un luccichio qualsiasi oltre la finestra che solitamente, a quell’ora, offre scorci rassicuranti sulla Mole illuminata.
Lui
Lungo i Murazzi scivola via il Po. Sembra un gigantesco e manso colubro. Scorre emettendo un suono delicato, come il crepitio di minuscole schegge di vetro e piume d’oca che si mischiano in un sacco scosso. Un suono che nessuno ascolta, un fluire al quale nessuno assiste. Nessuno tranne Lui. Sono passate da alcuni istanti le 2 di notte, sta per compiere 90 anni. Tiene spalancati due occhi gravi e grigi e fissa l’oscurità in direzione del fiume. È in piedi a un passo dalla corrente, avvolto in un largo mantello di lana antracite. Ha il capo coperto da un cilindro corto di velluto nero, fasciato con un nastro di seta zaffiro. Respira forte e bisbiglia ininterrottamente antiche formule magiche che nessuno capirebbe. È scoraggiato, come se non riuscisse a decifrare un arduo enigma. Ma di una cosa è certo: quel blackout lo ha prodotto lui. Improvvisamente interrompe la sua invocazione, cerca di calmarsi, con movimenti lenti e tremolanti si sfila una pipa di ciliegio dal taschino interiore del mantello e se la infila tra i denti. Ravviva la brace di tabacco con un cerino lungo. Dopo un paio di boccate dice sommessamente rivolto a sé stesso:
- È luna crescente, ho bevuto l’acqua santa e sono al cospetto di quella nera. L’orario è quello consono, l’allineamento astrale è chiaro, non ho sbagliato la pronuncia della formula. Eppure tutto quello che ho ottenuto è una banale esplosione di ombre. Ma perché non mi appari? Perché non ritorni da me? Liberami da questa oscurità.
Nessuno sa che lui si trova sulla riva del Po e forse per via del secolo quasi compiuto, che inizia a farlo sentire logoro, per un momento gradisce la sensazione di sentirsi scomparso. Baba, il suo amore di una vita intera, è morta l’anno prima e Lui di questo è furioso, in quanto aveva pattuito con l’occulto la vita eterna per lei. Il suo migliore amico, Lupo, è vittima di un maleficio oblitus, o come invece la definiscono saccenti i dottori: demenza senile.
- Demenza senile una trippa di topo. Camici bianchi infetti di giudizio!- Borbotta scuotendo il capo.
Sua sorella, considerandolo folle, brama di internarlo proprio nell’ospizio in cui è ricoverato l’amico. Lui non riesce a immaginare prospettiva più triste e sa di essere disposto a tutto pur di scongiurarla. È la prima volta che si immagina perfino di fuggire da Torino.
- Andarmene per sempre s’intende. D’altronde il mio per sempre non dovrebbe protrarsi ancora per chissà poi quanti anni.- Dice masticando il bocchino della pipa.
Come potrebbe sopportare una tale coercizione? Pensa che farebbero prima, se non addirittura meglio, a consegnargli una rivoltella ben lubrificata, magari con incisa sulla canna una di quelle diciture ufficiali per le quali le autorità vanno matte, del tipo: SSRG-Sezione Smaltimento Rimasugli Geriatrici. Gli dovrebbero chiedere di andare a spararsi nel luogo che preferisce. Dove sarebbe andato? Forse su in collina, forse giù al mare, nella località più vicina in linea d’aria.
E di tutta questa immagine, la cosa che maggiormente lo disturba, è che quelli della SSRG poi sarebbero dovuti venire a recuperare la sua carcassa. Nella rivoltella avrebbero piazzato un GPS per ritrovare il corpo, ma soprattutto l’arma, per forza, l’arma valeva più del corpo e gli sarebbe servita ancora, da consegnare al prossimo rimasuglio.
Sente sulla pelle del viso l’aria della notte raffreddata dal Po. Le ossa dolgono, sarà arduo risalire dai Murazzi e impiegherà un’eternità a raggiungere la branda nello scantinato della libreria di Via Lombroso.
Compie dei passetti su sé stesso per voltarsi, pare un ballerino di tip-tap sfinito. Si avvia verso casa, ma arrivato a metà della pendenza di pietra che risale dal fiume si ferma e pur senza scorgere nulla volge lo sguardo oltre al ponte Vittorio Emanuele I, in direzione di una delle due statue poste davanti alla chiesa della Gran Madre.
-Signora al di là dal ponte, ho nuovamente sbagliato il rito, scusami. Potresti rimediare per favore?- Grida gracchiando e prendendo fiato ogni due parole.
La sua voce echeggia nella notte. Inclina la testa e tende l’orecchio, in attesa di una risposta. Teme di non essere stato ascoltato e chiude gli occhi mestamente. Pochi istanti dopo però, con l’effetto di un flash di fotografia, in tutta Torino torna l’elettricità e Lui annuisce sghignazzando beato.
Gli appartamenti si illuminano, mentre una folata di vento caldo e gentile pettina alberi e cielo, portando via le nubi. La luna, quasi piena, ora si riflette mille volte sulle increspature del fiume che guizza. Un coro di sollievo si leva da ogni abitazione, da ogni bar, da ogni dove.
Con l’illuminazione può ammirare nuovamente la statua.
- Ti sono riconoscente! – Le strilla tutto a un tratto commosso, con gli occhi traboccanti di lacrime e la linea delle labbra tremolante come la fiammella di una candela morente.
Lei sembra osservare un punto indefinito dell’orizzonte, nella mano destra tiene un libro, con la sinistra solleva un calice.
– Dove guardi tu, quello è il punto esatto in cui è celato il Sacro Graal.- Dice portandosi agli occhi un fazzoletto bianco di cotone sbucatogli dalla manica del soprabito. Si asciuga via l’emozione dal viso. Un lembo del fazzoletto porta incise le sue iniziali ricamate con il filo rosso. Avanza per un po’ lungo la Piazza Vittorio, si ferma ancora, con un pugno si batte una gamba e aggiunge:
– Il fatto è che non ti hanno fatto le pupille, capisci? Non mi stancherò mai di ribadirlo, ma come puoi guardare un punto esatto senza avere le pupille? Con l’anima, d’accordo, tu sostieni di guardarlo con l’anima, ma come faccio io a guardare dove guarda la tua anima? Converrai che è l’impresa più ardua di tutte.
Rimette il fazzoletto fra la manica e il braccio. Le sue dita deformate e pallide tastano uno strano pendolo nero che tiene appeso al collo. Accompagna cautamente l’oggetto fino alla bocca e lo bacia con devozione, strizzando gli occhi. Poi riprende la sua lenta avanzata e sparisce per le vie che lo condurranno fino al suo quartiere.
Gli elettricisti, su alla centrale, poco dopo il ritorno della luce hanno ricevuto la chiamata di ringraziamento dal sindaco in persona. Era entusiasta e loro hanno accolto i complimenti, pur non avendo la minima idea di cosa fosse accaduto.
Tornare a casa
Quelli che sono svegli a quell’ora della notte sono tutti mezzi bevuti, stravaccati sulle seggiole dei bar o sui gradini dei negozi, con la schiena appoggiata contro le serrande. Nella migliore delle ipotesi alcuni forse si saranno appena laureati, nella peggiore vogliono soltanto stare lontani da casa. Chissà poi perché? Pensa Lui. Ma subito dopo si domanda il perché di quella domanda e senza perdere il passo dice a voce alta, fra i respiri affannati:
- In fondo anch’io a volte eviterei di tornarci.-
A ogni angolo incrocia una prostituta. Nascosti nei portoni dei palazzi o sotto agli ibisco che costeggiano le carreggiate, trova una sfilza di magrebini, alcuni hanno in mano una ricetrasmittente.
I baristi giovani non attraggono la sua attenzione, quelli vecchi invece si perché hanno qualcosa in più nel portamento, anche se non ha mai capito bene se dipenda dall’eleganza maturata o dal fatto che siano anchilosati.
– Però mi piace il modo in cui ottimizzano gli spostamenti. A vuoto non camminano di certo.-
Intanto ognuno dei personaggi che incrocia lo guarda passare. Non lo conoscono affatto ma la sua figura è estremamente gracile e gobba. Trasmette più l’idea di necessitare di un’ambulanza che non di una camminata notturna fra la gentaglia.
Lui sa di essere malridotto, solo che non ne fa un cruccio e gli piace comunque vestirsi bene. È nostalgico, pieno di memorie. È il settembre del 1999, sa che il suo secolo sta finendo e si domanda cosa possa fare, ancora, per migliorare il futuro. È taciturno, il mondo ormai lo annichilisce e non sa più che dire. Eppure è pieno di vita e quando si guarda allo specchio ogni tanto sgrana gli occhi, si impettisce e sbotta:
– E allora? A me sta benissimo così, e voialtri fatevi 100 anni di cazzi vostri.
Di mestiere fa il mago, specializzato in giochi di prestigio per guadagnare il pane, in Magia Bianca e Nera per virtù. Torino è sempre stata magica e Lui un tempo ne era stato il Re, anche se ormai quasi nessuno, fra gli attuali frequentatori degli ambienti esoterici, se lo ricorda. Alle pastiglie predilige il nebbiolo, all’aerosol la pipa, ai consigli del geriatra la medicina sciamanica. Vive nel retrobottega della sua libreria esoterica, che è anche un antico laboratorio alchemico, insieme a un merlo indiano di nome Nino. Entrambi attraversano il lutto più importante delle loro vite e Baba non si fa più vedere, né in sogno, né sotto mentite spoglie, quelle dello spettro. Lui si arrovella nella ricerca compulsiva di un varco sull’aldilà. Lei sapeva di morire, si sono salutati mescolando lacrime e respiri. Lui però vive una mancanza insostenibile e forse, chissà, vorrebbe riabbracciarla per non lasciarla più, seguendola oltre il varco.
Nino ogni mattina pronuncia una parola, Lui la trascrive su un quaderno. Gioca con i vocaboli di Nino, cercando in loro un codice sibillino per carpire lumi su cosa fare ora della propria esistenza.
Quella notte ha evocato lo spirito di Baba, ma un enorme fiotto di energie oscure, che le persone in genere chiamano buio, ha oltrepassato il passaggio da Lui creato, inondando Torino. Il varco era evidentemente difettoso e Lui inizia a credere che la sua magia si stia affievolendo.
Un incontro
Proprio mentre sta superando l’incrocio fra la Ormea e la Pio V una delle prostitute gli rivolge la parola. Lui non capisce subito le parole della donna, così si sente in dovere di arrestare la sua avanzata. Si concentra sul rallentamento dei suoi passi per evitare di cadere. Una volta stabilizzatosi si toglie il cilindro e volta la testa nella direzione della voce che lo ha raggiunto qualche secondo prima.
- Mi scuso signora, ma non ho capito. – Dice sorridendo, traboccante di una rara cordialità.
La donna lo osserva per un po’ e ricambia il sorriso. Il suo corpo è stagno, la sua pelle è mora. Indossa dei pantaloncini elastici color lilla che a Lui ricordano il pigiama di una bambina. Le sue cosce però sono taurine, in parte rigonfie e in parte muscolose, così come i polpacci. Calza delle zeppe di platica trasparente dal tacco altissimo, che la fanno sembrare come in equilibrio precario su due trampoli. I piedi, che sono tozzi, con la pianta larga e le dita grosse, somigliano a due specie di cotechini sudati avvolti nella pellicola alimentare. Anche la struttura del busto e degli arti superiori è massiccia. La capigliatura è ispida, di un nero corvino ruvido alla vista. Gli occhi sono castani, sembra che piangano, ma la bocca ride, esponendo una dentatura bianchissima anche se disarmonica. Il naso è largo e schiacciato fra due gote paffute e toniche. Gli si avvicina compiendo un paio di passi sonori, con la suola dura e delle sue calzature acrobatiche che schiocca sul lastrico ammantato dal piscio di cane. Alcuni altri nottambuli osservano la scena, stuzzicati nell’immaginario da quella che potrebbe apparire come la contrattazione epica fra una grassa baldracca beona e una mummia.
- Ho detto: ciao acciughina, ti va un tuffo nel mare? – Il tono della donna risulta forzatamente sinuoso e suscita in Lui un senso di compassione.
Passa cinque unghie lunghissime e acuminate sulla gobba del vecchietto.
Lui allora fa di sì con la testa, dandole a intendere che adesso ha compreso l’invito. Si passa due o tre volte la lingua sul palato perché si sente la bocca asciutta ma intende risponderle. La fissa negli occhi per cinque o sei secondi, il tempo che permette alla donna di guardarlo meglio.
- Che begli occhi. – Gli dice, in realtà incapace di sostenere quel silenzio.
- Sei del Paraiba, oppure del Pernambuco? – Dice Lui garbato e calmo.
La donna ritrae la mano di scatto e la porta alla bocca, che adesso è leggermente aperta.
- Come hai fatto? – Chiede ammaliata.
- Ti ho vista, tutto qui. Le tue gambe sanno ballare il Samba, non è così?
- – Risponde lei con un filo di voce. Tenta di deglutire la sua saudade. Pensa che la nostalgia per il suo litorale sia il bacino inesauribile delle sue lacrime, ma non lo dice, non ne parla mai. Poi continua. – Sono nata con il Samba no pé, sono nata nel Frevo, sapevo suonare il Berimbau.
- E cosa ci fai qui, a quest’ora della notte, talmente lontana da casa, pequeninha?
La domanda, posta da quel vecchissimo uomo gentile, in un modo talmente attento, ha il potere di disarmare completamente la prostituta, che inizia a piangere cercando di coprirsi il viso.
- Come lo sai? Come hai fatto a dirmi queste cose? –
- Ah, ragazza, fra i tuoi capelli c’è ancora l’odore della terra rossa e dell’oceano. Olinda? Recife?. Il tuo viso potrebbe essere di quelle parti e anche le tue mani sono da indio. Il tuo accento poi non tradirebbe mai le tue origini. Sono stato tante volte nella tua terra.
- E come mai? – Domanda ancora. – Non mi sembri il tipo che… insomma, lo sai cosa vanno a fare tanti uomini europei laggiù.
- Si, lo so. Io invece ci andavo a ballare con mia moglie. Ma, pequeninha, correvano gli anni ’60 e ’70, tu ancora non eri nata.
- Si invece acciughina, c’ero già, sono nata nel 1959 a Olinda. –
- – Lui cerca di osservarla da più vicino. – Hai solo 41 anni, rimani una pequenhina per me. E come ci sei arrivata fino a questo incrocio? –
- Per via di uno di quegli italiani. Ha sposato mia madre quando avevo 14 anni e ci ha portate qui. Non all’incrocio, fin qui ci sono arrivata da sola.
In quel momento si avvicina un uomo. Avrà una sessantina d’anni, indossa dei pantaloni di cotone color cachi, una camicia di flanella a quadri rossi e bianchi aperta fino all’ombelico, fasciata da bretelle nere. Ai piedi porta dei mocassini logori e sporchi di fango secco. I capelli sono bianchi e tagliati cortissimi, il suo volto è paonazzo e largo, le orecchie sono attaccate in basso e sono una cicatrice unica, come quelle dei lottatori. Lo stomaco dell’uomo sembra solido e sporge dalla camicia. Cammina spedito mentre fuma nervosamente, quando li raggiunge Lui si accorge che è tracagnotto quanto la prostituta e che i due hanno la stessa statura.
- Vi decidete? – Dice duramente rivolgendosi alla brasiliana.
- Calmo, se ne sta andando. – Bisbiglia lei.
- Porca puttana Irma, se non viene di sopra che cazzo ci parli a fare?
Lui si accorge che l’uomo emana un odore brusco di acqua di colonia. Irma abbassa lo sguardo e si acciglia.
Lui distingue in quell’uomo qualcosa di brutale. Ha un’aria campagnola, il suo corpo è forgiato dallo sforzo fisico e al contempo trascurato, non emana alcuna forma di garbo o considerazione del prossimo. Lo osserva con il capo inclinato ma l’uomo fa finta di non vederlo. Prende la donna per un braccio e la porta a una decina di metri di distanza, sull’altro lato dell’incrocio. Lui pensa che quell’uomo potrebbe aggredirlo con un pretesto qualsiasi, senza riflettere minimamente sulla sua età, né sulla sua inefficienza fisica.
- E chissà cosa combina alla – Dice a voce alta.
Allora Irma si volta verso di Lui per un’ultima volta e gli sorride.
I due si salutano con un cenno del capo. Lui si rimette il cilindro sul cranio e torna a compiere i passetti brevi nei quali era assorto fino a qualche minuto prima. Striscia la suola degli stivali sul cemento, avanzando in direzione del civico 13 di Via Lombroso. In tutto impiega un’altra mezzora per raggiungere la branda. Si toglie le scarpe, posa il cilindro sul tavolo, si corica vestito avvolgendosi completamente con il mantello come fosse un conte rumeno di altri secoli. Poi scivola dentro al proprio respiro, addormentandosi quasi subito.
Sogna di essere vestito completamente di lino bianco. Lui e sua moglie passeggiano con i piedi nudi sulla sabbia fresca. È notte, alcuni pescatori neri cucinano polpo su una brace, un berimabo batte il suono più triste che c’è.
L’aura mortifera
C’era una cosa che gli capitava da quando Baba era morta, il medico li chiamava attacchi di panico ma a Lui sembrava riduttivo e aveva formulato un nome più esaustivo: aura mortifera.
Era una sensazione con cui si risvegliava di soprassalto nel cuore della notte. E Lui, ogni volta, appena aperti gli occhi, si sentiva cosparso di tenebra, come se l’arrivo del giorno potesse illuminare un letto vuoto. Facilmente gli sfuggiva il senso dell’esistere, il perché delle cellule, l’utilità di avere un nome, una casa, un mestiere. Di questi pensieri lo invadeva la notte, come se l’evanescenza diventasse la sua epidermide, facendolo sentire scomparso. E allora Lui pian piano doveva alzarsi dal letto e far qualcosa per sentirsi esistere, con minuzia pulirsi via il buio di dosso. Era un lavoro delicato, il buio era appiccicoso e nella sua rimozione non ci si potevano concedere grossolanità. Di norma percorreva claudicante il corridoio e per prima cosa si avvicinava al cucinino, composto da due fornelli, un tavolino e una cassettiera posti sul fondo del retrobottega. Tagliava una fetta di pane, ci spalmava sopra il burro e la marmellata. Caricava la caffettiera e la posizionava sulla fiamma. Mentre attendeva il suono gorgogliante del caffè bollente si muoveva a passi brevi e accendeva qualche candela. Scongiurava l’aura mortifera con gesti della quotidianità. Cercava di convincersi che se uno spalma la marmellata su una fetta di pane e gode del suo sapore affondandoci i denti, oppure se uno accende una candela e sente il bruciore passando un dito sulla fiamma, non può essere scomparso. Sapeva così di non essere evanescente.
Il buio non lo aveva avuto neppure quella notte. Lui ora avverte l’alba avvicinarsi e irradiarlo di consistenza. Non vede l’ora di incamminarsi per le vie della città e riconoscere qualche volto. Ogni tanto vedeva delle persone che erano state giovani quando lo era stato Lui. Gli sembravano inverosimili relitti. Era come guardarsi allo specchio e allora strizzava forte gli occhi grinzosi, si accostava a una colonna o a un muro e si concedeva un pianto nascosto dal cappello. Nulla sarebbe stato ricordato in eterno, né le chiassose vite di generali, sovrani o statisti ambiziosi, né sussurrati racconti di miserabili o viandanti. Tutto era destinato all’oblio, prima non ci aveva mai pensato, ma adesso lo sapeva.
- E allora per quale diamine di ragione viviamo? – Mormora senza nemmeno rendersene conto.
A volte guardava i mezzi busti di bronzo di cui era disseminato il centro, i ragazzi ci passavano davanti senza notarli, né conoscere le prodezze descritte nelle loro didascalie. Non era rimasta nemmeno lei, polverizzata nel corpo nonostante la sua natura forte, che a Lui per lunghi anni era parsa immortale. E quando anche Lui avrebbe raggiunto il cuore della terra, oppure gli astri, chi ancora si sarebbe ricordato di lei? La risposta era univoca: nessuno.
Con la tazza del caffè fra le mani si avvicina alla grande voliera dell’anziano merlo indiano. Apre la porticina e la creatura gli balza immediatamente su una spalla. Nino ha ancora un manto nero lucente e ogni volta ricambia gli sguardi con prontezza:
-Buongiorno Nino.-
-Giorno.- Gracchia il merlo guardandosi attorno.
-Anche io la cerco. Sai dov’è andata?- Gli chiede.
-Giardino!-
Lui stringe un po’ le labbra e fa di sì con la testa.
-Si, forse è in giardino. Nino, che parola vuoi dire oggi? – Era il momento del loro gioco: La parola del buongiorno.
-Barlume. – Esclama Nino dopo un momento di silenzio, oscillando il capo.
-Come dici? – Chiede Lui stranito.
-Barlume. Barlume – Ripete il merlo indiano.
Lui lo guarda ancora per un po’, è assorto in alcune elucubrazioni.
-Bellissima. Grazie Nino. –
E gli porge uno spicchio di mela e lo lascia libero di volteggiare per la casa e zampettare su mobili, libri e banchi da lavoro. Muove altri passi per la casa e recupera dalla scrivania del suo studio il Taccuino di Nino, sul quale ha annotato, da quando il merlo è stato in grado di parlare, tutti i vocaboli da lui pronunciati.