Racconto breve

Racconto breve

Lui

Lui
di Matteo Beltrami

 

A Torino è notte fonda ed è in corso un’anomala interruzione dell’energia elettrica. Una densa macchia di un nero catacombale ammanta la città e sembra volersene impossessare per sempre. I pipistrelli sono tornati nei loro sottotetti, i rospi negli acquitrini degli argini. Non si vedono le stelle, la luna è camuffata dietro a lugubri nubi bagnate. Le persone sono inquiete, nessuno ha voglia di nominare ciò che si sente nell’aria, ma tutti conoscono il suo nome: paura.

I marciapiedi sono viscidi dall’umidità, ma chi nel momento del blackout si trovava a piedi in giro per il centro, adesso guarda in basso e non li vede più. Non si vede più nulla, solo un buio profondo, e c’è chi tentoni ha cercato il pilastro di un portico o la base di un monumento e ci si è attaccato, rimanendo così immobile ad occhi chiusi, bisognoso di un riferimento solido.  È in corso una lotta fra la luce e il buio e ogni essere vivente sembra accorgersene. Nel buio pesto si perdono le tracce degli schiamazzi, che diventano bisbigli e nessuno osa bucare quelle tenebre con effimeri fasci luminosi, per timore di intravedere dentro alla loro solennità.

Gli elettricisti di picchetto del comune non comprendono l’origine del guasto e non ne vengono a capo. Assonnati, perché chiamati a un orario assurdo dall’ingegnere capo sui loro cellulari mai silenziosi, si sono trascinati fuori dal letto fino alle loro automobili e senza realizzare la ragione dell’urgenza hanno raggiunto la centrale elettrica. Sono all’opera da circa un’ora, ma non hanno individuato nessuna spia indicatrice, nessun fusibile esploso. Eppure né i lampioni sulle vie, né i comodini degli insonni sono illuminati nel raggio di chilometri.

Gli elettricisti avvertono un inspiegabile senso di smarrimento. Loro, solitamente logici risolutori, si guardano attoniti, con gli occhi ancora cisposi dal sonno. Uno di loro azzarda fatalista:

-Non ci sono guasti, c’è solo buio.

-Un buio da mettere i brividi, signori, ma diamoci da fare che di guasti ce ne sono per forza.- balbetta l’ingegnere capo in apprensione, mentre cerca di scorgere un luccichio qualsiasi oltre la finestra che solitamente, a quell’ora, offre scorci rasserenanti sulla Mole illuminata.

Intanto lungo i Murazzi, come un gigantesco e manso colubro, scivola via il Po. Scorre emettendo un suono delicato, come il crepitio di minuscole schegge di vetro e piume d’oca che si mischiano in un sacco scosso. Un suono che nessuno ascolta, un fluire al quale nessuno assiste. Nessuno tranne lui. Sono passate da alcuni istanti le 2 di notte, lui sta compiendo 99 anni. Tiene spalancati due occhi gravi e grigi e fissa l’oscurità in direzione del fiume. È in piedi a un passo dalla corrente, avvolto in un largo mantello di lana antracite. Ha il capo coperto da un cilindro corto di velluto nero, fasciato con un nastro di seta zaffiro. Respira forte e bisbiglia ininterrottamente antiche formule magiche. È scoraggiato, come se non riuscisse a decifrare un arduo enigma. Ma di una cosa è certo: quel blackout lo ha prodotto lui. Improvvisamente interrompe la sua invocazione, cerca di calmarsi, con movimenti lenti e tremolanti si sfila una pipa di ciliegio dal taschino interiore del mantello e se la infila fra i denti. Ravviva la brace di tabacco con un cerino. Dopo un paio di boccate dice sommessamente:

-È luna crescente, ho bevuto l’acqua santa e sono al cospetto di quella nera. L’orario è quello consono, l’allineamento astrale è chiaro, non ho sbagliato la pronuncia della formula. Eppure tutto quello che ho ottenuto è una banale esplosione di ombre. Ma perché non mi appari? Perché non ritorni da me, dolce amore mio? Liberami da tutta questa oscurità.

Nessuno sa che lui si trova sulla riva del Po e forse per via del suo quasi-secolo appena compiuto, che inizia a farlo sentire logoro; dell’ennesimo fallimento di quel rituale per lui cruciale o proprio del fatto che nessuno lo sta vedendo, inizia ad amare la sensazione di sentirsi scomparso. Baba, il suo amore, è morta un anno prima e lui di questo è furioso, in quanto aveva pattuito con l’Occulto la vita eterna per lei. Il suo migliore amico, Lupo, è vittima di un maleficio oblitus, o come invece la definiscono saccenti i dottori: demenza senile. Sua sorella, che è anche la sua tutrice legale, considerandolo folle brama di internarlo proprio nell’ospizio in cui è ricoverato l’amico. Lui non riesce a immaginare prospettiva più triste e sa di essere disposto a tutto pur di scongiurarla, perfino svanire nel nulla.

Sente sulla pelle del viso l’aria della notte raffreddata dal Po. Le ossa dolgono, sarà arduo risalire le scale dei Murazzi e impiegherà un’eternità a raggiungere la branda nel retrobottega della libreria esoterica.

Compie dei passetti su se stesso per voltarsi, pare un ballerino di tip-tap sfinito. Si avvia verso casa, ma arrivato a metà della scalinata di pietra che risale dal fiume si ferma e pur senza scorgere nulla a causa del buio, volge lo sguardo oltre al ponte Vittorio Emanuele, in direzione di una delle due statue poste davanti alla chiesa della Gran Madre.

-Signora al di là dal ponte, ho nuovamente sbagliato il rito, scusami! Potresti rimediare per favore?- dice gracchiando e prendendo fiato ogni due parole.

La sua voce echeggia nella notte. Pochi istanti dopo in tutta Torino torna l’elettricità. Gli appartamenti si illuminano, mentre fuori una folata di vento caldo e gentile pettina alberi e cielo, portando via le nubi. La luna, quasi piena, ora si riflette mille volte sulle increspature del fiume che guizza e un coro di sollievo si leva da ogni abitazione, da ogni bar, da ogni dove.

Con l’illuminazione lui ora può ammirare nuovamente la statua alla quale si è rivolto. Ha gli occhi aperti e guarda un punto indefinito dell’orizzonte, nella mano destra tiene un libro, nella sinistra un calice.

-Dice la leggenda che il tuo sguardo indica il punto esatto in cui è celato il Sacro Graal.- dice mentre claudicante attraversa Piazza Vittorio. – Io non so più se è vero, ma in ogni caso anche oggi ti ringrazio.- aggiunge baciando uno strano pendolo nero che tiene appeso al collo.

Gli elettricisti intanto, su alla centrale, poco dopo il ritorno della luce ricevono una chiamata di ringraziamento dal sindaco in persona. Accolgono i complimenti, pur non avendo la minima idea di cosa sia accaduto.

Lui adesso ha 99 anni, compiuti in solitaria in riva al fiume. È gracile, gobbo, ma non ne fa un cruccio e gli piace vestirsi bene. È nostalgico, pieno di memorie. È il settembre del 1999, sa che il suo secolo sta finendo e si domanda cosa possa fare, ancora, per contribuire al futuro. È taciturno, il mondo ormai lo annichilisce e non sa più che dire. Eppure è pieno di vita. Di mestiere fa il mago, specializzato in giochi di prestigio per guadagnare il pane, in Magia Nera e Bianca per virtù. Torino era sempre stata magica e lui un tempo ne era stato il Re, anche se ormai quasi nessuno se lo ricordava. Alle pastiglie predilige il pastis, all’aerosol la pipa, ai consigli del geriatra lo sciamanesimo.  Vive nel retrobottega della sua libreria con un merlo indiano di nome Nino che è più loquace di lui. Entrambi attraversano il lutto più importante delle loro vite. Baba, l’incendiario amore defunto, non si fa più nemmeno vedere, né in sogno, né sotto mentite spoglie, quelle dello spettro. Lui si arrovella nella ricerca compulsiva di un varco sull’aldilà, anche se in fondo non ne avrebbe motivo. Lei sapeva di morire, si sono salutati mescolando le loro lacrime d’amore e i loro respiri affranti. Lui però vive una mancanza insostenibile e forse, chissà, desidera riabbracciare Baba per non lasciarla più, seguendola oltre il varco.

Nino ogni mattina pronuncia una parola, lui la trascrive su un quaderno. Gioca con i vocaboli di Nino, cercando in loro un codice sibillino per carpire lumi su cosa fare ora della propria esistenza. Più volte al giorno ripete formule per maledire sua sorella e sfuggire al ricovero. La gente quella notte aveva creduto nel blackout elettrico, ma tutta quell’oscurità altro non era che la diretta conseguenza di un rituale di psicomanzia. Questo la diceva lunga sulla potenza della sua magia. Aveva evocato lo spirito di Baba, ottenendo soltanto che un enorme fiotto di energie oscure oltrepassasse il varco da lui creato, inondando Torino. Il varco era evidentemente difettoso.

Impiega un’ora per raggiungere la branda. Si toglie le scarpe, posa il cilindro sul tavolo, si corica vestito avvolgendosi completamente con il mantello e scivola dentro al proprio respiro, addormentandosi all’istante.

C’era una cosa che gli capitava da quando era bambino, il medico li chiamava attacchi di panico ma a lui sembrava riduttivo e aveva formulato un nome secondo lui più esaustivo: aura mortifera. Era una sensazione con cui si risvegliava di soprassalto nel cuore della notte. E lui, ogni volta, appena aperti gli occhi, si sentiva cosparso di buio, come se l’arrivo del giorno potesse illuminare un letto vuoto. Facilmente gli sfuggiva il senso dell’esistere, il perché delle cellule, l’utilità di avere un nome, una casa, un mestiere. Di questi pensieri lo invadeva la notte, come se l’occulto diventasse la sua epidermide, facendolo sentire evanescente. E allora lui pian piano doveva alzarsi dal letto e far qualcosa per sentirsi esistere, con minuzia pulirsi via il buio di dosso. Era un lavoro delicato, il buio era appiccicoso e nella sua rimozione non ci si potevano concedere grossolanità. Percorreva claudicante il corridoio e andava in cucina. Tagliava una fetta di pane, ci spalmava sopra il burro e la marmellata. Caricava la caffettiera e la posizionava sulla fiamma. Mentre attendeva il suono gorgogliante del caffè bollente si muoveva a passi brevi per la sala e accendeva qualche candela. Scongiurava l’aura mortifera con gesti della quotidianità. Cercava di convincersi che se uno spalma la marmellata su una fetta di pane, per poi avvolgersi del suo sapore, non può essere scomparso. Non era ancora dimenticato, né evanescente. Il buio non lo aveva avuto neppure quella notte e lui ora sente l’alba avvicinarsi e irradiarlo di consistenza. Non vede l’ora di incamminarsi per le vie della sua amata Torino, riconoscere qualche volto. Ogni tanto vedeva delle persone che erano state giovani quando lo era stato lui. Gli sembravano inverosimili relitti. Era come guardarsi allo specchio e allora strizzava forte gli occhi grinzosi, si accostava a una colonna o a un muro e si concedeva un pianto nascosto dal cappello. Nulla sarebbe stato ricordato in eterno, né le chiassose vite di generali, sovrani o statisti ambiziosi, né sussurrati racconti di umili operai o viandanti. Tutto era destinato all’oblio, prima non ci aveva mai pensato, ma adesso lo sapeva. A volte guardava i mezzi busti di bronzo di cui era disseminato il centro, i ragazzi ci passavano davanti senza notarli, né conoscere le gesta incise nelle loro didascalie. Non era rimasta nemmeno Baba, polverizzata nel corpo nonostante la sua natura forte, che a lui per lunghi e dolci anni era parsa immortale. E quando anche lui avrebbe raggiunto il cuore della terra, oppure gli astri, chi ancora si sarebbe ricordato di lei? La risposta era univoca: nessuno.

Con la tazza del caffè fra le mani si avvicina alla voliera di Nino, l’anziano merlo indiano. Nino ha ancora un manto nero lucente e ogni volta ricambia gli sguardi con prontezza da dietro il reticolato dorato della sua grande voliera:

-Buongiorno Nino.- Gli sussurra sollevando il telo che la ricopre.

-Giorno. Giorno.- Gracchia il merlo guardando verso la sala.

Nino dice due volte buongiorno, perché per tutta la vita è stato svegliato anche da Baba. È proprio lei che cerca, guardando altrove. 

-Anche io la cerco Nino. Sai dov’è andata?- Gli chiede.

-In giardino!- Gracchia ancora il merlo.

Lui stringe un po’ le labbra e fa di si con la testa.

-Si, forse è in giardino. Nino, che parola ci dici oggi?- Era il momento del loro gioco: La parola del buongiorno.

-Rituale!- esclama Nino dopo un momento di silenzio, oscillando il capo.

-Rituale?- Chiede lui stupito.

-Rituale!- Ripete il merlo indiano.

Lui lo ringrazia e gli porge uno spicchio di mela. Poi muove altri passi per la casa e recupera dalla scrivania del suo studio il Taccuino di Nino, sul quale ha annotato da sempre le parole del buongiorno.

“30 settembre 1999. Rituale”. Scrive, per poi iniziare a sfogliare a ritroso le paginette ingiallite.

È la seconda volta che Nino dice quella parola. La prima volta l’aveva pronunciata che era poco più di un pulcino.

-Eccola qui, che coincidenza.- mormora.

“17 settembre 1980. Rituale”.

Si posa allo schienale rapito dal ricordo. Quel giorno lontano aveva desiderato sposarla. Finiva l’estate, stavano sorseggiando una birra al tavolino di una bottiglieria affacciata sul mare di Salonicco. Si amavano da oltre mezzo secolo ed erano già anziani, ma soltanto allora si ritrovarono a parlare del rito, grazie a Nino, che li aspettava nella baracchina cosparsa di salsedine in cui pernottavano, e quel mattino aveva pronunciato quel vocabolo.

Agli ultimi sorsi le loro opinioni sul rituale del matrimonio coincisero. Si sorrisero divertiti. Pagarono le birre e saltarono sul motorino. Raggiunsero il centro della città ed entrarono nell’area del mercato. Qualche giorno prima avevano notato il bancone di un rigattiere. Lo ritrovarono e nella miriade di cianfrusaglie scovarono due anelli di argento, diversi fra di loro, ossidati dal tempo. Presero posto su una panchina, lui le chiese di sposarlo. Lei disse di si, con le mani si stringeva le falde della gonna bianca, emozionata. Tornati a Torino si sposarono in Comune.

Adesso rimette nel cassetto il Taccuino di Nino. La luce del nuovo giorno sta iniziando a riempire le stanze e lui si sente più al sicuro. L’aura mortifera si dissolve al sole. Ma un pensiero lo attraversa: per quanto ancora sarebbe riuscito a esorcizzarla? Si rende conto in quel momento che fatta eccezione di sé, Nino è l’unica creatura vivente a ricordare il loro passato. Comprende allora che sta davvero per scomparire.

 

  • Il pendolo di ebano

Stringe al petto lo stesso pendolo che impugnava nel blackout, la notte prima. L’oggetto è una specie di suo consigliere. È stato cesellato a mano, ma lui non è mai riuscito a risalire alla sua reale provenienza. È fatto di ebano ed è attaccato a una vecchissima catenella di rame. Lui ha dato al pendolo un nome dissacrante, lo ha chiamato Gesù Cristo, il che la dice lunga su due cose importanti: si è scelto le proprie divinità e non gli manca il sarcasmo.

Gli diede questo nome quando lo ricevette in dono, una settantina di anni prima. Finiva l’anno 1929, si avvicinava il Natale, Torino era ammantata dalla neve. Il cuore della città era ammutolito dal regime. Il movimento dell’esoterismo era abituato alla segretezza, viveva mondi completamente separati da quelli chiassosi della politica, anche se in città erano tante le camicie nere che richiedevano dei colloqui confidenziali con gli stregoni. Un giorno, al ritorno da una messa in memoria della mamma defunta, aveva annunciato ad amici e familiari di non volersi mai più confessare, né di voler mai più mettere piede in una chiesa o in una di quelle finte messe, che in realtà, sostenne, erano soltanto eventi mondani e sciocchi in cui era diventato abitudinario distorcere le storie dei Santi. Disse che la chiesa cattolica lo aveva definitivamente deluso, a causa del suo invischiarsi con la perbenista violenza fascista. Suo  padre allora lo aveva implorato, nel nome della defunta moglie, di ritrovare nostro Signore:

– Non bestemmiare figlio, Gesù e Dio non centrano nulla con i fasci.

-Allora troverò il mio personale Gesù Cristo papà.

Suo padre non poteva saperlo ma lui, in gran segreto da tutta la famiglia, proprio il giorno prima aveva iniziato a leggere i tarocchi ai passanti. Si posizionava sul marciapiede, sotto ai portici di via Po e invitava le persone a un’esperienza mistica, nel retrobottega della minuscola libreria che lui e Lupo avevano aperto da poco. Era apparso un anziano uomo, lievemente itterico ma subito eccitato all’idea di una predizione. L’uomo accettò la proposta dei tarocchi per saperne qualcosa in più sulla propria fine, che sapeva essere vicina. Lui rimase stranito dall’ilarità di quell’uomo moribondo, gli disse che la fine poteva anche essere prossima, ma che nulla gli avrebbe impedito di gironzolare per le strade e i solai del centro quando sarebbe diventato un fantasma. Confidò all’uomo che lui e Lupo lo avrebbero visto e riconosciuto. L’uomo, entusiasta, si propose di retribuirlo non in denaro, bensì con uno strano pendolo di legno.  L’informazione lo colpì, non si aspettava di osservare un simile oggetto di culto sbucare dal panciotto di quell’ometto mezzo matto.

-Mi permetta, ma cosa ci faccio? Aveva chiesto sorridendo.

-Scherza giovanotto? Questo gingillo diventerà la sua guida fidata, è di fattura francese.

-E come si usa?

-Questi sono affari vostri, non c’è una regola, dovete prima conoscervi.

Lui aveva guardato quell’uomo giallastro con indulgenza e si era preso il pendolo, pensando che lo avrebbe regalato a qualche bambino.

-Fare la conoscenza del pendolo francese?- chiese.

-Non è di nazionalità francese, soltanto di fattura! È di ebano sa? Lo ha intagliato il nonno di un mio commilitone di guerra, un algerino espatriato a Chartres. Ah! Ricordi di dargli un nome, si sentirà considerato e diventerà un consigliere ancora migliore!

-Va bene se lo chiamo Gesù Cristo?- Aveva scherzato lui allora, ripensando alle parole del padre.

L’uomo si era fatto un segno della croce e si era congedato.

Nel frattempo era arrivato Lupo, all’epoca giovane quanto lui, solo molto più esuberante.

-Molli i tarocchi e mi segui al Ragnetto? Suonano fino a tardi. Adesso quel pendolo è tuo Lui?-Disse non appena l’uomo itterico fu uscito.

-Ciao Lupo, ci ha pagati con questo. Sai di cosa si tratta?

-Si, lo fai penzolare e gli dai il tempo di rispondere.

-Rispondere a cosa?

-Se si o se no.

-Se si o se no cosa?

-Se al Ragnetto trovi la donna della tua vita, oppure no. Andiamo?

-Ma oggi non dovevamo andare a rubare l’olio di ricino negli scantinati delle camicie?

-E per farci cosa?

-Medicine Lupo, sono giorni che te ne parlo.

-Ascoltami bene, Lui, stanno arrivando gli anni ’30 e nella vita non ci siamo dedicati ad altro che alla fame, alle magie e a maledire i fasci. Potrò anche continuare a nascondermi, a lottare contro il regime, ma vorrei farlo in dolce compagnia. Prendi il tuo nuovo Gesù Cristo e andiamo a ballare al Ragnetto.

-Tu vai pure, io ti raggiungo fra un’ora al massimo, te lo prometto.- Aveva risposto irremovibile.

E così era stato. Aveva rubato una tanica di latta di olio di ricino da un vecchio scantinato, rischiando grosso. Gli sarebbe servita per la creazione di nuovi unguenti alle erbe; poi raggiunse Lupo al Ragnetto. Il locale era in un sotterraneo, scendendo le scale non sapeva che le avrebbe risalite insieme a colei che lo avrebbe affiancato per tutto il resto del secolo.

La visita quotidiana al ricovero in cui è stato internato Lupo è sempre straziante, Lui però non ci rinuncerebbe mai. Vedere il suo amico è l’unica cosa che gli fa sentire di avere ancora una storia. Intrattiene con Lupo conversazioni in cui cerca di ricordargli pezzi di vita importantissimi. Lui è convinto che qualche altro mago della città abbia lanciato una maledizione sul suo compagno, devastandolo nella memoria. Non riesce a comprenderne le motivazioni. Lupo era stato un mago buono e corretto, non aveva perseguito la ricchezza personale e aveva lottato per il mantenimento dell’equilibrio fra tenebra e luce. In gioventù aveva ucciso tre fascisti in un colpo solo e ne aveva maledetti a centinaia e Lui pensa che forse, se bisogna trovare un nemico, è in quella parte di storia che lo si deve cercare. Tutto era cominciato un mattino di circa tre anni prima. Lupo non si era presentato alla libreria, lui aveva pensato a uno dei suoi consueti ritardi, ma l’amico non era arrivato neppure dopo un’ora, né due. Verso la fine della mattina lui aveva servito una dozzina di clienti da solo e iniziava a essere stanco. Aveva provato a telefonare a Lupo senza ottenere risposta, così si era messo il cilindro e il mantello e si era incamminato verso l’appartamento in cui viveva. Lo aveva trovato sdraiato sul letto vestito di tutto punto. Fissava il soffitto come ipnotizzato e rideva a crepapelle, sostenendo euforico di aver imparato a volare. Lui aveva chiamato in soccorso Baba, all’epoca già malata. Insieme avevano destato Lupo da quello che sembrava un sogno ad occhi aperti, facendolo rialzare dal letto. Nei giorni successivi però le condizioni dell’amico non avevano fatto che peggiorare, al punto di farli sentire in dovere di avvertire i suoi familiari. Non è mai stato facile sostenere la scelta di essere dei maghi e lavorare con l’Occulto. Uno dei prezzi da pagare è stato l’eterno disprezzo da parte dei loro cari. I familiari di Lupo lo consideravano folle ormai da molte decadi e quel bizzarro esordio di qualcosa che assomigliava a un morbo cerebrale, fu il pretesto perfetto per farlo ricoverare con effetto immediato. Lupo, anche dopo l’internamento, continuò a scordarsi gradualmente di tutto quanto. Lui aveva osservato la propria identità svanire dai ricordi del suo migliore amico, che ora quando lo guardava non lo riconosceva più. E poi era morta Baba. Lui adesso è seduto di fianco al letto di Lupo e confabula vocaboli magici per scacciare quel perfido malocchio ladro di ricordi sacri. I due sono avvolti dalla penombra e dal silenzio. Lupo dorme profondamente. Lui ripensa al funerale di Baba, quel giorno aveva provato una indicibile solitudine e quando una sua lacrima aveva toccato il manto erboso che circondava la lapide, la terra aveva vibrato e lui aveva intuito che alcuni demoni lo stavano deridendo, forse illusi di vederlo sopraffatto dal dolore.

– Chi può essere stato, amico mio, a farti questo? Come hanno fatto a ridurti così?- dice strizzando gli occhi colmi di lacrime.

– E lei chi è? Cosa fa in casa mia?- Gracchia Lupo svegliandosi all’improvviso, allarmato.

Lui sobbalza spaventato, ma subito si ricompone. Sospira sconsolato e posa entrambe le mani sul pomello di ottone del suo bastone.

– Sono sempre io, cioè Lui! Sono qui da mezz’ora e questa non è casa tua, è un dannato ospizio senza nemmeno un santo patrono. Aspettavo che ti svegliassi, mi hanno fatto entrare le infermiere.

– Lui?- Domanda Lupo fissandolo turbato.

Lui si china leggermente in avanti e gli sorride.

– Esatto, Lui. È solo un nomignolo, lo hai inventato proprio tu nel ’43, per non svelare il mio vero nome ai nazisti. È così che mi hai salvato! Quelle truppe sono arrivate a Torino direttamente dal fronte Russo, portavano il male nei loro respiri, la loro pelle era verde, ricordi?

– No, ma cosa ci facevano a Torino? Ti volevano arruolare?- Biascica Lupo.

– Arruolare? Questa è bella! Noi eravamo dall’altra parte! Ma è mai possibile che ti stia dimenticando davvero di tutto? Avevano sentito parlare del nostro laboratorio, qualcuno gli aveva parlato dei nostri riti, ci davano la caccia e ci volevano mettere al muro. Pensavano fossimo partigiani, invece eravamo maghi. Comunque per loro non avrebbe fatto differenza. Insomma, un giorno ci hanno beccati mentre versavamo alcuni estratti nelle loro scorte di cibo, in un magazzino del centro.

-Estratti?

– Oh, niente di che: cianuro, cicuta, arsenico, le solite cose. Pensavamo al loro benessere.

-E com’è andata? Ti hanno arruolato?

-Non mi hanno arruolato, Lupo. Noi siamo scappati, o perlomeno ci abbiamo provato. Io ho raggiunto quasi subito uno dei nostri pertugi segreti, quello del Museo Egizio. Tu invece sei stato preso e messo al muro.

I due rimangono in silenzio, Lupo fissa Lui con due occhietti affranti e opacizzati dalla cataratta.

-Bang-bang?- Bisbiglia intimorito, premendo un grilletto immaginario con un indice ossuto.

-Non subito. Prima ti hanno chiesto di me, di come mi chiamavo.

– Ah! Un tedesco si è pisciato sotto in Piazza Statuto, di fianco all’angelo caduto, Lucifero, ovvio.

– Capitava a molti di loro, la nostra necromanzia era potente, li portava a vedere i loro defunti camminare fra i vivi, ma solo se passavano vicino alla statua di Lucifero.

– Eravamo cattivi allora. Tu vedi i tuoi defunti? 

– Loro volevano prendersi la Sindone! Avrebbero guastato l’equilibrio fra la Nera e la Bianca a Torino, dovevamo lottare, dovevamo essere più cattivi di loro.

– La nera e la bianca?

-Magia Lupo, magia! Non ricordi nemmeno il nostro covo, il nostro laboratorio?- Lui si affligge.

-Insomma, sono morto fucilato?

-Questa è la cosa incredibile Lupo, tu non sei morto!

-Ah no? E com’è andata?

-Nessuno lo ha mai capito e tu non ne hai mai più parlato. Hai detto ai nazisti che io ero il discendente di Iside e che mi chiamavo “Lui”. Lui e basta, figlio di Ramses e Iside, ripetevi, prendendoti beffa di loro. Loro ti hanno torturato. Ti sentivano urlare tutti. Io ti aspettavo nel covo e quando non ti ho visto arrivare sono corso fuori, in direzione del punto in cui ci siamo divisi. Correvo a perdifiato quando udii gli spari dei loro fucili. Ti avevano messo con le spalle contro il muro del Palazzo Reale e avevano fatto fuco in otto, tutti assieme. I testimoni mi hanno raccontato di averti visto con i loro occhi ricevere tutte quelle pallottole nel centro del petto, ma che poi, una volta sparita la coltre del fumo delle detonazioni e dei calcinacci esplosi dietro di te, tu eri scomparso.

Lupo ora fissa Lui e sembra stare per piangere, ma è difficile distinguere l’origine delle lacrime che sgorgano dagli occhi di quel corpo sbranato dai contraccolpi.

-Si, adesso ricordo. Ricordo i loro volti e il mio petto che si squartava. Poi me la sono svignata insieme a Iside, che mi ha salvato, mi ha curato.- Balbetta.

-Come dici? Non hai mai saputo spiegare come sei sopravvissuto al plotone.

Silenzio. Lo sguardo di Lupo si perde in direzione del soffitto.

-E quanti anni hai?- Strilla dopo un momento di catatonia.

-99, da ieri notte.

-Ma è incredibile! E dove sei nato?

-A Torino, per l’esattezza nello stesso retrobottega in cui vivo adesso.

-La libreria esoterica.- Mormora allora Lupo, come rapito.

-Allora ti ricordi?- Lui si illumina.

– Cosa ricordo? Cos’hai fra le dita? È un pendolo!

Sospiri.

– Si, è fatto di ebano, lo sai.

– Non lo so, ma è necessario dargli un nome.

-A suo tempo lo chiamai Gesù.

-Addirittura?- Lupo ride con un sibilo rauco.- Non hai risposto.- Dice poi.

-A cosa?

-Alla domanda sui tuoi defunti. Li vedi?

-Baba è la mia defunta. Ti voleva bene. Non riesco a vederla.

-E di amici ne hai?

-Ne ho due: un merlo indiano e tu.

-E cosa ci fai a casa mia?

 

 

 

Il mattino seguente Lui è seduto nella penombra del retrobottega della libreria esoterica, curvo sul vecchio tavolo di faggio illuminato dal barlume di una candela. Pesta delle erbe essiccate in un piccolo mortaio e poco alla volta aggiunge delle gocce di olio di ricino. Ripercorre una conversazione avuta giorni prima:

-Non ho pace, inizio a temere che su di me penda una maledizione.- aveva esordito con voce fioca l’emaciato giovane sulla ventina che gli aveva chiesto un colloquio.

-Si spieghi meglio.- lo aveva esortato lui, scrutandolo da vicino con i suoi scintillanti occhi grigi.

-Non trovo il mio posto nel mondo, nessuna condizione mi soddisfa a lungo, devo sempre andare oltre, ricominciare. Vivo nell’insoddisfazione perché detesto la pochezza spirituale del nostro tempo. Odio tutti eppure mi sento solo. Penso sempre alla morte e temo che nulla di ciò che farò sarà sufficiente a farmi sentire di aver vissuto pienamente.

Spirito tubercolinum.- aveva sussurrato Lui a quel punto.

-Come dice?

-Lo sa che la tubercolosi nascondeva un mistero?

-Un mistero?

-Si, un’anima capace di introdursi nell’organismo dei poeti maledetti. C’è chi crede siano state le loro afflizioni emotive a evocarla, a generarla. Così divenne un ideale, i giovani volevano infettarsi per emulare i loro miti profondi di spirito. Le ragazze si incipriavano il viso per apparire pallide e cagionevoli. Gli uomini, soprattutto gli aspiranti artisti, sognavano di andarsene così, con il respiro che li abbandonava pian piano.

-Un ideale un po’ triste.

-Cosa vuole che le dica, gli hippies protestavano con pace e amore, nell’’800 invece per distinguersi si anelava a un malinconico martirio.

-E la nostra generazione?

-È il 1999, mi dispiace ma voi non avete più tempo nemmeno di ribellarvi, dovete produrre.  Riesco però a distinguere quelli che sono portatori di certi spiriti.

-Gli spiriti delle malattie, certo.- Il tono del giovane aveva una nota di scetticismo. 

-Mi ascolti bene: lei deve imparare a leggere il suo malessere con un briciolo di poesia. L’epidemia è durata secoli, ci ha plasmati. Alcuni sono discendenti inconsapevoli dei malati di allora, che hanno tramandato ai posteri i fantasmi della tubercolosi. I vostri polmoni sono sani, ma nell’anima delle cellule che li compongono c’è memoria delle sofferenze di tante esistenze passate. È per questo che i sentimenti  vi mozzano il fiato. In molti avete nasi adunchi e morsi incrociati, scapole sporgenti e toraci gracili, richiami quasi pittorici di corpi consumati dalla fame di ossigeno. Siete figure umane sensibili, cogliete la precarietà della vita e necessitate di viverla al massimo. Siete in continuo cambiamento, senza darvi pace. Attorno a voi fluttua una nobile aura nera, io la sto vedendo in questo momento.

-E cosa ci posso fare? Suona tutto molto romantico maestro, ma io cerco la mia calma.

-Lo spirito tubercolinum non se ne andrà, ma ritorni fra una settimana, le darò un preparato che lo placherà. Voi due farete amicizia e lui la accompagnerà verso magnifiche avventure.- aveva concluso.

 

Mentre finisce di preparare il rimedio ripensa a lei. Si erano visti per la prima volta poco più che ventenni, fuori da Porta Palazzo. Baba era arrivata a Torino per lavorare in una villa della collina.  L’avevano comprata in Somalia insieme a una dozzina di altre ragazze e l’avevano divisa dalla sua terra. La stavano istruendo sulla sua nuova vita in città e sui luoghi in cui avrebbe dovuto fare acquisti per la villa, quando si videro. Lui rimase colpito perché lei bisbigliava. I suoi padroni la stavano sgridando, implorandola di smettere, perché così sembrava spiritata o folle, ma lei continuava a bisbigliare frasi in una lingua incomprensibile. Alcuni passanti, osservandola, si facevano il segno della croce. Lei si guardava attorno rabbiosa e al contempo spaventata. Era il giorno di San Giuda, loro lo ignoravano ma a chilometri di distanza i fascisti marciavano su Roma. Dopo quel primo sguardo la vita li aveva portati a rivedersi spesso per le vie del centro, ma si erano conosciuti e innamorati solo più tardi, nel 1930; quell’anno gli americani avevano scoperto plutone e trovarlo nel cielo buio con un telescopio sgangherato fu la prima cosa tenera che fecero insieme. Erano diventati inseparabili. In seguito avevano lottato con la resistenza e anni dopo ascoltato nascere il rock ‘n’ roll.

Quello che Lui non aveva detto al giovane paziente, era di avere dentro di sé lo stesso selvatico spirito tubercolinum, che soltanto l’amore per Baba ammansiva, facendolo diventare una tenebra splendente. Lo spirito tubercolinum si nutre di emozione, di passione, di gioia.

Quando era bambino, verso la metà degli anni ‘10, sua madre soffrì di violenti attacchi di asma e tosse. Lui ogni tanto si avvicinava al suo capezzale e la guardava impressionato contorcersi e boccheggiare. Una volta le sussurrò:

-Mamma, chi è felice respira bene, perché tu non lo sei?

La mamma non capì e lo osservò sorpresa con lo sguardo storpiato dal panico di chi ha fame d’aria. Nemmeno lui seppe mai spiegare da dove gli nacquero quelle parole. Quello che entrambi all’epoca non sapevano ancora, era che la donna stava morendo di tubercolosi.

 

 

Sono trascorse alcune settimane dalla notte dell’oscuramento. Lui ha l’impressione che la sua vita trascorra in modo sempre più invisibile agli occhi degli altri, eppure si stupisce di sé quando si ritrova a desiderare di passare ancora più inosservato. Forse per questo scopre un’intolleranza mai conosciuta in precedenza, quando quella mattina fra la posta trova uno scritto di sua sorella Chiara, a sua volta anziana, seppur di una decina d’anni più giovane. Il biglietto è scritto a mano e raccomanda a chiare lettere l’ennesima visita dal geriatra. Perfino la calligrafia trasmette perentorietà.

“Come sempre devo metterci il senno che non hai voglia di metterci tu! Mi hanno telefonato dal supermercato e mi hanno raccontato di averti notato piuttosto confuso l’altro ieri. Ho fissato un appuntamento con il Dottor Putzmann per oggi alle 11:00, fatti trovare pronto, passiamo a prenderti mezz’ora prima. Tua sorella Chiara.”

-Quei bastardi del supermercato!- Sbotta accartocciando il biglietto e facendolo finire nella spazzatura.

Raggiunge a passo spedito la scrivania, prende posto e sistema davanti a sé carta e penna. Respira affannosamente, e compie ogni gesto con stizza, è furibondo. Pensa di scrivere una risposta intrisa di risentimento da appendere fuori dalla porta della libreria. La sorella e il cognato l’avrebbero trovata quando sarebbero venuti a prelevarlo per quella inutile visita medica forzata che si erano inventati.

Improvvisamente però qualcosa, dentro di lui, interrompe il vortice di rabbia. Ripensa alla sensazione provata in riva al Po, quando avvolto dalla tenebra si è sentito come scomparso dal pianeta. Pensa a quel momento, al senso di sollievo che lo ha sorpreso, e lo sente di nuovo. Una sorta di calore, un rilassamento profondo che gli ondeggia fra le tempie e lo stomaco, accarezzandolo da dentro. L’invisibilità, la fuga, l’evanescenza. Ora non desidera più rispondere a Chiara. Vuole scrivere un messaggio per Baba. Pensa che in seguito domanderà a Nino dove depositarlo e si convincerà del fatto che Baba lo troverà, lo leggerà. La penna si posa sul foglio, Lui si lascia andare e cerca, per la prima volta, di attribuire delle parole a quelle che stanno diventando le sue nuove intenzioni.

 “Caro amore di un secolo,

ho un messaggio importante da trasmetterti.

Qui le cose si mettono sempre peggio. Forse lo sai già, ma ho fallito un altro rituale. Mi sto sempre più convincendo che dalla mia magia sia sparito qualcosa, forse quella componente che fa arrivare il suono di una formula pronunciata oltre alle barriere di questo piatto mondo razionale, sto parlando dell’emozione.

L’altro giorno sono stato al supermercato. Mi vergono un po’ a raccontartelo, ma mi sono smarrito. Ricordo di essere arrivato fino all’immensa parete delle leguminose in scatola. I suoni degli altoparlanti mi rimbombavano nella testa. Surgelati a perdita d’occhio. Bambini piangenti infilati nei carrelli, di fianco a pezzi d’agnello, manghi e dentifrici.  Ho fissato la muraglia di scatole variopinte, ho iniziato a leggere di fave cinesi, fagioli africani, lenticchie americane. Dentro di me c’è stato un cortocircuito, mi sono imbambolato. Un commesso mi ha notato e mi ha chiesto se avessi bisogno di aiuto. Credimi Baba, io riuscivo solo a indicargli lo scatolame, senza poter proferire una sola parola, inebetito. Il commesso è corso a chiamare il direttore. Ho avuto pura di veder apparire un’ambulanza e ne ho approfittato per fuggire.

Baba, io non ne posso più, nel mio futuro non c’è più nulla, ogni cosa importante è rimasta indietro. Ogni mio passo falso è una potenziale condanna. E io lo so! Lo so che mia sorella ci sta per riuscire! Quando sei morta tu mi ha tolto tutti i diritti e si è proclamata mia tutrice legale, e adesso sta per infilarmi in quel dannato ospizio. Ho un annuncio da farti: desidero più di ogni altra cosa ribellarmi a tutto ciò. Metterò in scena una straordinaria e avventurosa Opera Magica! Il rituale dei rituali! Non mi avranno Baba, non mi hanno mai avuto e non mi avranno di certo adesso.

Preso avrai altre notizie sul mio conto.

Eternamente tuo.

Lui”

 

 

 

 

Posa la penna, si sente più calmo. L’ira verso la sorella è scomparsa, spazzata via da orizzonti ben più interessanti ai quali ambire. Imbusta la lettera e si alza. Raggiunge la voliera di Nino per consultarlo. Il merlo è pronto all’ascolto, come sempre.

-Nino, ho qui questo messaggio da consegnare a Baba, secondo te dove posso lasciarlo affinché lei lo trovi?

Nino, con le sue movenze delicate osserva attentamente la busta, poi il suo padrone, e infine suggerisce:

-Qui!

-Qui dove Nino? Nella tua gabbia?- Domanda Lui con voce gentile.

-Qui! Qui! Nella tua gabbia.- afferma il merlo.

Lui, senza indugiare, posa la lettera oltre le sottili sbarre e ringrazia Nino.

-Adesso scusami, ma devo assolutamente uscire di casa, per non farmi trovare. Andrò un po’ a zonzo per il centro. Tornerò da te verso sera e ci faremo una chiacchierata prima della notte.

Lui si veste di tutto punto e con una certa fretta fugge dalla sua stessa casa, poco prima dell’arrivo dei suoi due parenti.