Racconto breve

Racconto breve

Mister gilet di merda

2010

Sono diretto verso l’attico di questa palazzina fuori dal centro, mi hanno invitato a una festa e hanno insistito troppo affinché ci fossi. E io alla fine ci sono andato, seppur senza fretta, facendo il giro più largo, godendo dell’aria notturna scarsa di smog. Godendo anche del rischio, camminando lento fra cani randagi addormentati. Inizio a salire le scale, percorro tutta l’altezza del condominio, la musica si fa sempre più alta, poi capisco che ci sono due musiche diverse. Ne percepisco una prima, suonata dal vivo, con strumenti a corde. E un’altra che esce da uno stereo, è roba elettronica poco decente. Due musiche diverse nella stessa festa non sono un buon presupposto, al contrario, sono una merda.

Alla fine della rampa di scale apro quella che dovrebbe essere una banale e arrugginita porta sul tetto, ma che in realtà si rivelerà essere il varco che mi teneva lontano da Alcatraz. Non sarei riuscito a venire via da quella festa per diverso tempo oltre al mio personale limite di sopportazione, che di fatto era si era già esaurito su quella scaletta.

Faccio un passo e tocco il suolo del tetto, sono dentro. Il cielo è stellato, l’ubicazione è potenzialmente straordinaria.

Due minorenni ballano muovendo solo le dita. Un tizio pallido con i rasta e un musetto da micio ciondola la testa, anche lui sotto influenza di vibrazioni elettroniche. In molti bevono rigidamente osservando ciò che li circonda. Un ragazzino che forse è rachitico denota un’ubriachezza sviluppata ormai sull’arco di diverse ore. La mescolanza delle due derivazioni acustiche si fa molesta oltremodo. Due chitarristi cantano bene a occhi chiusi, arpeggiando anche meglio. Le persone che li circondano lanciano occhiate sprezzanti in direzione della zona stereo. Il gruppo della zona stereo fa finta di nulla, forse perché in ogni caso sembrano averla vinta. Ecco, a quel punto me ne sarei pure andato, ma mi avevano notato.

“Oh cazzo! Benvenuto! Bevi, devi bere, ti invito!” Mi strilla uno che mi conosce di striscio. È esaltato, euforico.

Il caos acustico inizia a pungermi il cranio, mi volto di scatto fra il sorpreso e l’urtato. Abbozzo un ghigno svogliato. Ora metto a fuoco, si tratta di Carlos, un collega di un amico. Mi invita e questo nella cultura locale significa che mi devo sparare uno shot della merda che ha nel bicchiere. A mia volta poi dovrò invitare qualcun altro, riempirgli il bicchiere e salutarlo. Accetto la botta alcolica, ma commetto un errore fatale: non ringrazio prima di toccare il liquido con le labbra. Attorno a me divampa un boato di risa e urla.

“Bevi doppio!” cantano in coro alcuni, che a guardarli son tutti sudati.

Mi rifiuto di entrare in quel gioco. Non mi piace bere in quel modo. Bere non è uno sport di squadra.

Mi allontano e le risa si smorzano dietro di me. Ho appena fatto la figura di quello che non si sa divertire, di quello che non rispetta le tradizioni locali. Ebbene sì.

Mi accomodo su una sedia di plastica rossa, è agevole, è mia, è ben posizionata, vicino agli strimpellatori di chitarra, nella zona tranquilla della festa.

Da lontano la squadra di bevitori sportivi mi osserva commentando il mio comportamento, alcuni scuotono la testa e sono come sconsolati. Da una decina di metri li guardo da seduto, sorrido e spalanco le braccia con benevolenza. “Suvvia, e che cazzo.” Dico.

Finalmente mi rilasso, lascio che l’arpeggio di chitarra mi lenisca i timpani. Un ragazzo barbuto mi invita a bere un bicchiere di vino rosso, io accetto, lui mi versa il vino in silenzio, mi passa il bicchiere lentamente, torna al suo posto, solleva la sua porzione di alcol e mi accenna un “salute.” Io ricambio, apprezzo e bevo. Non è difficile, non ci vuole tanto sforzo. Il mio fegato parla con il vino, il mio spirito con la calma, e io rimango ad ascoltare in silenzio, rimango ad ascoltare il silenzio che si è premurato di offrirmi, quel gentile giovane barbuto, di cui non conoscerò mai il nome. Lui non mi chiede il mio, io non gli chiedo il suo.

Fu allora che accadde.

Da lontano noto che il padrone di casa mi sta guardando. Vedo che inizia a fare un giro largo, ma che è attratto dalla mia postazione. Dopo essersi fermato a parlare con tre persone arriva da me. Solo in quel momento noto la bruttura del suo fottuto gilet di seta.

“Porca miseria.” Ha un gilet di seta blu, lucido, con delle fibbie attorno alla vita e con ricamati dei dragoni argentati sul petto e sulla schiena. Non è tanto che il gilet sia da buttare via, ma starebbe meglio addosso ad un cocainomane narcotrafficante di basso fondo panamense. Il padrone di casa invece è tedesco, ha 19 anni appena compiuti ed è in Sudamerica per il suo servizio civile. Se ne va in giro con la pelle bianca come un formaggino al latte di capra, le lentiggini arancioni, così come tutti i peli e i capelli del suo corpo, un taglio di capelli da marines e una camminata rigida da calciatore. Davvero, di norma non me ne frega nulla di come si veste la gente, ma lui faceva schifo.

Gilet di Merda si ferma a un metro da me e ammicca esageratamente. Io lo guardo e poi guardo il mio bicchiere, più per distogliere lo sguardo che altro. Ma lui continua a fissarmi e ora ha assunto l’espressione di una mamma indispettita però ironica.

Non capisco perché mi fa quella faccia. Poi, come se non bastasse, si mette le mani sui fianchi, apre appena le gambe e inizia a picchiettare un piede. Alza un po’ un braccio, stira il dito indice e lo scuote in segno di rimprovero.

Lo guardo. Dentro sono stranito, ma non dico nulla. Lascio che parli.

“Ma cosa stai facendo?” Mi dice con quel suo accendo germanico. Non voglio che ti annoi alla nostra festa!” Mi dice biascicando le parole.

“Ma non mi sto annoiando. Sono appena arrivato.”

“Siamo venuti qui per ucciderci di alcool!” Si da un contegno ma è paonazzo, è sbronzo.

“Ma come uccidersi, Wilhelm.”

“Si invece! Domani ti devi ricordare della festa per tutto il giorno!” E si porta una mano alla testa e mima uno che vomita.

“Ma io me la ricorderò.”

“Ti porto un rum e coca?”

“Ho il vino.” Dico, mentre ancora mi sforzo di sorridere.

“Ma che cosa ti importa del vino! Dai butta giù un rum e cola.”

“Stavo ascoltando la musica. Ma lo sai che hai rotto le palle?” gli dico.

Sulle prime Gilet di Merda rimane spiazzato, ma poi scoppia in una risata infuocata.

“Bella questa!” Poi si guarda attorno. “Vuoi un rum cola allora?” Mi fa.

“Ma la smetti di chiedermi se voglio un rum cola?”

“Si, ma quando ti ho invitato alla festa ci siamo detti che sarebbe stata fantastica! Che avremmo bevuto fino alla morte!”

Mentre dice questo arriva la sua ragazza e lo invita a farsi una foto con lei. Lei è indigena, la loro è una relazione antropologicamente ardua. Lui accetta con entusiasmo e una volta presa la posa trasforma il suo volto di latte in una specie di espressione seria, il cosiddetto sguardo della tigre.

Ne approfitto per alzarmi, da lontano faccio di nuovo “salute” con il ragazzo barbuto, cammino ancora un po’ per il tetto, fra la gente che blatera.

Gilet di Merda conosce la verità, io mi sto davvero rompendo i coglioni. Poco dopo imbocco l’uscita e torno in strada, nel silenzio, a camminare fra cani randagi dormienti in direzione di casa mia.