Racconto breve
Racconto breve
Nel vuoto.
Racconti brevissimi
dall'estate 2024.
Nel vuoto.
Racconti brevissimi dall’estate 2024.
“Sono felice solo in mare, nel tragitto tra un’isola che ho appena lasciato e un’altra che devo ancora raggiungere.”
Nanni Moretti, Caro Diario
Pineapple Runner
È da un mese che non faccio nulla, perché al momento lavoro nelle scuole e in estate sono chiuse. Non è scontato non far nulla, ci avete mai provato?
“Grazie al cazzo, non ti starai per lamentare?” direte subito. No, dico solo che non è scontato rimanere in contatto con il vuoto così a lungo. Intendo dire senza riempirlo con roba come lo sport, il lavoro eccessivo, i viaggi, valangate di serie tv, oppure ancora lamenti, litigi, problemi, progetti salvifici.
Il nulla non è affatto male, dico solo che non ci siamo abituati. Provare per credere. Insomma, visto che per questa estate ho scelto il vuoto, ho anche pensato che sarebbe stata necessaria una strategia per starci. Volevo evitare di rimettermi a letto dopo il giro con i cani e la colazione, perché sapevo di correrne il rischio. Allora di solito prendo la bici e vado in giro per la città, lo faccio molto lentamente, mi guardo attorno, vedo ogni cosa. Bevo un caffè, mangio una focaccina, pedalo ancora un po’. Saluto uno, saluto l’altro. Nella mia terra interiore poi dalle 11.00 in avanti è legale il vino. Non esagero mai, un bicchiere o due, massimo tre al giorno. Francamente mi interessano più le vinerie del vino in sé. Il senso dei miei giri, se ve ne aspettavate uno, non c’è. Errare, andar per via senza meta. Non è male, provare per credere. Ma comunque non è abbastanza per distoglierti dal vuoto. Una certa dose di vertigine è inevitabile. Rimane da gestire un certo impulso a progetti salvifici o ad atti riempitivi. Il vuoto ti fa vedere quanto inconsistenti siamo, quanto insignificanti siamo in fondo, tolte tutte le parvenze di identità. La mente e il corpo non lo accettano e tentano con foga di aggrapparsi alle più splendide parvenze umane. Personalmente non vedo niente di negativo in vocaboli duri da pronunciare, anzi, mi sento più coerente quando mi do dell’insignificante. Significo la stessa cosa che significa una foglia, alla fine.
Nel vuoto poi si fanno degli incontri strani. Ci si incontra con le persone che vivono lo stesso ambiente simbolico.
Stamattina ero al terzo giro del quartiere quando all’incrocio fra l’Ormea e la Lombroso ho visto questo tizio vestito da maratoneta che teneva un ananas in equilibrio sulla testa. Se stavo andando al lavoro non ci pensavo nemmeno a fermarmi per parlare con uno così, ma io che invece non avevo un cazzo da fare ho fatto inversione a U e sono andato da lui. Chiariamoci, non è che mi abbia cambiato la vita, ma non è che mi sia fermato sperando di cambiare vita. Se ne stava lì fermo sul marciapiede, come se fosse pronto a partire per una lunga corsa, con un ananas in equilibrio sulla testa. Non si è stupito affatto quando mi ha notato:
- Buongiorno– Gli faccio. – Cosa significa l’ananas sulla testa? –
- Sono contento che tu me lo abbia domandato. – mi risponde in un inglese che capisco bene, un inglese da non anglofono. – Sono un maratoneta famoso in tutto il mondo, perché corro con un ananas in testa. –
- Mh– mugugno io.
- Mi trovi sul web, tutti parlano di me quando mi vedono, per via di questa cosa dell’ananas.
Lo fisso ancora un po’, con un sorriso scemo. Poi penso che alla fine dei conti quella era già una risposta. Perché me ne stavo ancora lì ad assillarlo? Se io posso paragonarmi a una foglia, perché lui non può correre con un ananas in testa senza che qualcuno gli domandi il perché? Stavo per salutarlo quando lui riprende a parlare:
- Sono una specie di Gandi con un ananas in testa. L’ananas simbolizza l’equilibrio della pace sulla terra. Se uno vuole la pace deve correre per i suoi traguardi, ma senza dimenticarsi dell’equilibrio. Non è importante il traguardo, è importante che l’ananas non cada. Ho 71 anni.
- Ah.
- Capisci? Voglio comunicare che siamo tutti connessi. È un simbolo di pace.
- Si, si. Capisco. – Pensando però che capire non era nemmeno tanto rilevante.
Poi il Pineapple Runner mi ha salutato e ha iniziato una corsetta leggera in direzione del parco, con l’ananas sulla testa. Adesso sono le 11.00, sono alla vineria e lo sto ancora pensando. Di tutta questa storia la cosa alla quale preferisco pensare è il momento in cui il maratoneta cambia ananas. Si siede in qualche parco e mangia l’ananas maturo, oppure lo regala a qualcuno. E nel mondo adesso sta germogliando un nuovo ananas, che magari fra qualche settimana finirà sulla sua testa.
Dal Banglino
Sotto casa abbiamo un cosiddetto Banglino, un negozietto di alimentari aperto 30 ore su 24 gestito da una famiglia proveniente dal Bangladesh, seppure il proprietario spesso sia sardo, calabrese o campano. Oggi ci sono andato, sono sempre gentili con tutti, anche con me. C’era la signora con il figlio più piccolo, che avrà 10 anni e che quando sta con i genitori al negozio spesso fa i compiti appoggiato sul banco di fianco alla bilancia. Io a volte gli sorrido da lontano, o gli faccio ciao con un cenno del capo, perché io con i ragazzini ci lavoro e ho facilità nella comunicazione con loro. A volte, ma non oggi, c’è anche un fratello maggiore che di anni ne avrà 14, fa le medie e già gira con gli amici per il quartiere. Il maggiore, quando sta al negozio, si occupa della cassa. Con lui allora ci parlo proprio, gli chiedo come va la scuola, gli chiedo se i genitori lo fanno lavorare troppo. Glielo chiedo per scherzare, ma so che è vero e che lui, con quella domanda, si sente capito. Lui comunque sorride sempre e fa di sì a tutto. Seduto in un angolo c’è spesso anche il proprietario, che guarda come vanno gli affari. E gli affari vanno bene, perché sono bravi. Tutte le mattine sulla piazza fuori dal negozio c’è il mercato, allora il proprietario e i banglini montano un banco di frutta e verdura esterno. Il proprietario ha un fratello che sembra il suo gemello, ma di questo non ho certezza. Il fratello del proprietario vende formaggi sardi, ha un banco proprio vicino a quello dei banglini, che hanno tutta quella frutta colorata e quella bellissima verdura. Il proprietario sembra felice, così come lo sembra suo fratello, quello dei formaggi. Gli affari sembrano andare a gonfie vele. Se lo meritano. Sono gentili con la famiglia di bangladini e nel negozio si respira una certa simpatia.
Quando sono entrato, oggi, la signora era al telefono con il Bangladesh e allora mi ha fatto segno di prendere quello che volevo e portarglielo alla bilancia, in modo che lei potesse calcolarne il prezzo. Così ho fatto un primo viaggio con una mezza anguria e quando sono arrivato alla bilancia ho visto che il figlio piccolo stava scrivendo su un foglio copiando qualcosa da un cellulare, ma ci ho badato poco. Ho fatto altri viaggi dalle scansie alla bilancia. Un chilo di albicocche dalla Sicilia; un chilo di cetrioli dalla Calabria; un chilo di pomodori cuore di bue sempre dalla Sicilia; due limoni e due cipolle rosse che non si sapeva da dove arrivassero, o almeno non era indicato e non ho avuto né l’interesse, né la voglia di chiederlo. Poi ho recuperato due scatole di tonno e una tavoletta di cioccolata. A quel punto, mentre la signora imbustava il tutto e calcolava il prezzo, ho fatto un giro per il Banglino per vedere se mi venivano in mente altre cose da comprare, ma soprattutto per vedere se avevano la feta. Ma la feta era finita e non ho reputato opportuno, né logico, rimpiazzarla con del Parmigiano Reggiano, nonostante l’idea mi sia venuta, se no nemmeno ne parlerei.
Io e la signora abbiamo percorso ognuno il proprio breve tragitto, attraversando il negozietto e ritrovandoci alla cassa, lei di là e io di qua dal banco.
- Ventinove e trenta. – mi dice.
- Si, grazie, bancomat. –
- Bancomat? – mi dice mentre prepara la macchinetta.
- Fa i compiti? – Le domando nell’attesa, sorridendo e indicando con il mento il bambino.
- A-ha. Impara giapponese. – Mi dice la signora.
- Giapponese? – ripeto io, pensando che la signora forse stia un po’ esagerando.
- A-ha. –
- Perché impari il giapponese? – dico allora rivolgendomi direttamente al figlio più piccolo.
Ma lui trova superflua una risposta e fa spallucce. Allora dopo aver strisciato la carta vado verso la bilancia per recuperare le mie borse della spesa e do un’occhiata a cosa sta scrivendo il bambino. Lui però sorride imbarazzato e copre la scritta e il telefono con le mani.
- No, tranquillo, allora non guardo. – lo rassicuro.
- Ma tanto è giapponese. – mi fa lui.
Poi, sempre da imbarazzato, controlla che la mamma non stia arrivando, mi guarda e tira via le mani per farmi vedere. Allora io guardo e vedo che sul banco di fianco alla bilancia, il suo solito banco dei compiti, ci sono: telefonino aperto sulla pagina di google trasnlator nella versione italiano-giapponese e una striscia di carta sulla quale il bambino sta ricopiando un vocabolo in tremolante calligrafia giapponese.
Guardo meglio verso il telefonino e vedo che nella casella per l’italiano il bambino ha digitato: “ti ammazzo”. Nella casella in giapponese appare: あなたを殺します. Anata o koroshimasu.
“Ti ammazzo in giapponese”, penso, forse muovendo appena il labiale senza rendermene conto, anche se non lo potrei giurare, appunto perché non me ne sono reso conto del tutto.
Apro appena la bocca e faccio di sì con la testa, guardo ancora un momento la strisciolina di carta e la scritta in giapponese, che in effetti corrisponde alla traduzione di google.
- Ti-amma-zzo. – bisbiglio senza volerlo, rileggendo la versione italiana della scritta, su google translator.
Il bambino mi guarda ancora un po’ e poi torna a coprire la scritta e si imbarazza ancora. Allora gli sorrido e prendo le buste piene della mia roba.
Stasera insalata greca senza feta.
Momo’s Cocktail Bar
Abbiamo mangiato con due amici in questo peruviano che di meglio è difficile trovare, a mio modesto modo di vedere. La prima cosa che hanno fatto, appena arrivati, è stata di dirci che aspettano un figlio. È seguita una bella cena. Anticuchos, diaframma, escabeche, ceviche. Tutto con calma, e abbiamo parlato per bene. Poi al caffè Michi mi mostra il cellulare e mi fa:
- Guarda qua. –
Io ci guardo e vedo che c’è aperta una pagina di recensioni. Leggo la prima frase della prima recensione:
“Il proprietario è un gran maleducato”.
- Ahia– dico.
- È da un po’ di tempo che vado a bere solo nei posti con le recensioni peggiori. – mi dice Michele.
- Ma va? Questo promette bene allora.
- È qua vicino, ma prima leggine un paio.
Poi Michele mi passa il telefono e io ci metto un po’ più di concentrazione:
“Carlo Cazzullo ha scritto:
Se si è in gruppo e qualcuno non prende niente da bere perché deve guidare, ti caccia dal locale. Ha tolto lo sgabello da sotto il sedere di una persona che stava consumando e ci ha incitati ad andare via. Cocktail pagati troppo.”
“Cinzia Raperza ha scritto:
Esperienza pessima. Il proprietario ci ha sbattuti fuori dal locale perché 2 ragazzi su 5 non hanno bevuto nulla perché dovevano guidare. L’arroganza e la maleducazione hanno il sopravvento quando si tratta di guadagnare. Dopo aver rovinato il compleanno che stavamo festeggiando il signore ha concluso il litigio insultandoci. Anche i prodotti erano pessimi come lui.”
“Piero Primino ha scritto:
Il proprietario maleducatissimo, ci ha cacciati dal bar solo perché 2 di noi non se la sentivano di bere alcolici. Il fatto è che dovevano guidare. È così che si premia il senso di responsabilità di due ragazzi con la testa sulle spalle? I cocktail niente di che, il compleanno rovinato.”
- Vabbè ma questi si sono messi d’accordo. – dico fra me e me.
- Eh certo, erano insieme e anziché scrivere una sola recensione ne hanno fatta una a testa, non contano. – dice Michi.
- Che senso civico però.
- Ma leggi quella del cane.
“Curzio Usti ha scritto:
Incuriosito dall’esterno del locale sono entrato. Saluto il proprietario ma vedo che mi fissa il cane e dice: questo cane lascia tanti peli. Poi continua a fissarlo, evidentemente senza sapere che ai cani non piace. Il mio cane a quel punto infatti gli abbaia e lui: non mi mordere. Ringrazio e me ne vado. Non ho provato alcun cocktail ma mi sento di dare una recensione discretamente bassa. Cosa consiglio? Di andare senza il cane sicuramente, poi fatemi sapere.”
Dopo avere pagato usciamo dal peruviano e decidiamo di camminare fino da Momo’s per un cocktail.
Il cocktail bar risulta davvero vicinissimo, giusto un centinaio di metri, voltiamo l’angolo e vediamo l’insegna al neon. È semplice e rossa e dice: Momo’s. Fuori dal locale, su uno sgabello, c’è un uomo di mezza età che fuma un sigaro in placida contemplazione del tutto. È elegante e calmo, appena ci vede posa il sigaro e ci precede, entrando nel bar. Capiamo che si tratta proprio di Momo. Non c’è nessun’altro, la musica è di qualità e viene fuori da uno stereo della metà degli anni ’90 alimentato da un cavo elettrico e nutrito a CD. Suona Alanise Morisette, nel suo famoso ed eccezionale album live e unplugged. Le luci sono soffuse, i colori dell’atmosfera sono caldi, Momo tace il giusto mentre da una lucidata al bancone. Poi ci passa la carta e si mette a sistemare dei bicchieri. Torna dopo un paio di minuti e ci guarda senza sorridere, ma senza nemmeno risultare serio, né austero.
La produzione dei cocktails è invisibile e silenziosa. Daiquiri, Manhattan, Bloody Mary. Un’acqua frizzante per Giulia, chiaro.
Le donne escono e io rimango al bancone con Michele. Parliamo fra di noi e poi anche con Momo. Origini, lavoro, musica, politica, viaggi. È una bella conversazione, che non lascia strascichi, che non genera incomprensioni. Tutto è lì, in quel momento. Funziona e basta. Beviamo altri due cocktail, che ci pettinano l’anima con la grazia di un padre che porta il figlio in un bosco la domenica mattina.
Fra una cosa e l’altra viene fuori anche che la mia famiglia ha origini romagnole, o toscane, non ho mai voluto decidere. Il fatto è che madre è nata in un paesello sul confine fra le due regioni, dove il territorio è legalmente toscano, ma il dialetto è romagnolo. Legalmente è toscana, ma insomma, il dialetto è romagnolo. Racconto che poi sono emigrati, di essere nato in Svizzera e di essere tornato in Italia a vivere, ma solo da due anni.
- Scusami eh, ma la Svizzera è paese triste. Funziona tutto eh, ma è triste. Ho provato ad aprirci un bar nel 2007, a Lugano. Impossibile. – dice Momo.
Poi parliamo della Sicilia. Tutte e tre le nostre donne hanno origini siciliane. Diciamo alcune cose sulla Tunisia, dove Momo è nato. Dopo un po’ Momo torna a tacere e a fare cocktail per altri clienti.
La serata scorre, si innalza e poi sfocia nella quiete. Iniziamo a essere alticci, perché a cena avevamo già bevuto dei Pisco Sour. Dopo un paio d’ore il locale è ormai gremito e noi siamo pronti per andare a dormire. Le donne ci raggiungono come se avessero pensato la stessa cosa. Qualcuno paga il conto e in quel mentre io vado verso l’uscita, per mettere la faccia fuori dalla porta e vedere se l’aria è fresca. Da fuori guardo dentro, abbasso lo sguardo e vedo un cartello sgualcito, vecchio, è appiccicato alla parte interna della porta vetrata. È un cartello piuttosto grande, lampante, con lo sfondo giallo e le scritte nere. Il cartello dice:
“Non sono ammessi i cani.”
Ce ne andiamo, da lontano, già sul marciapiede, incrocio lo sguardo di Momo e alzo una mano per salutarlo.
- Ciao svizzero, non tornare mai indietro! – mi dice a voce alta.
Il vagabondo che non mi piace
In giro per il quartiere c’è questo tizio che fa l’elemosina e dorme per strada. A me non piace perché va sempre in giro con questa faccia mesta e propina a tutti racconti sulla sua sfortuna, mentre tende una mano. Lui non lo sa ma io l’ho visto un paio di volte farsi di crack al parco, perché io ho l’occhio lungo, ma lui non sa nemmeno questo. Quando sono arrivato in città, due anni fa, lui era grassoccio, la faccia mesta era la stessa ma qualche volta l’ho visto farsi delle grasse risate con i nigeriani o i magrebini. Poi è dimagrito molto, avrà avuto qualche altra sfiga, chissà. Adesso sta di nuovo prendendo peso. Secondo me, che ci vedo bene, questo qua fa il furbo.
- – dice mestamente mentre sei a mangiare o fuori dalla vineria a bere. – Sono un ragazzo che ha avuto molte sfortune e vivo qui attorno. Adesso ho un’infezione e sto raccogliendo un po’ di soldi per gli antibiotici. – dice roba di questo tipo.
- Non ho monete, mi spiace. – rispondo sempre io.
Allora lui mi guarda come se fossi il meteorite che ci estinguerà e dice cose come:
- Con il tuo dispiacere non ci compro le medicine. – oppure ancora: – Non credo proprio che ti dispiaccia –
Questo qua non mi va a genio per nulla e ogni volta che si installa in qualche angolo del quartiere poi lascia sempre un merdaio che manco un allevamento di tacchini. Cammina mesto con un trolley colmo di stracci e delle borse del supermercato messe a tracolla. Spesso zoppica vistosamente e sembra un bambino piccolo che alla partita di calcio simula di aver subito un grave fallo. Ma a me non la dà a bere.
Il suo vittimismo attecchisce principalmente sulle ragazze ventenni, perché lui di anni ne avrà una quarantina e per quanto mi venga spontaneo di denigrarlo non posso dire che non sappia parlare. È un gran chiacchierone e se vuole racimolare dieci euro stai sicuro che ci riesce. Una volta l’ho visto passare dal tavolino dov’erano sedute cinque o sei giovani ragazze studentesse universitarie, roba come filosofia o sociologia. Zoppetto ha snocciolato qualche dramma e loro sono rimaste letteralmente allibite dalla sua agonia. Lui ha fatto per andarsene quando ha visto che le giovinette erano rimaste attonite, ma loro, prontamente, dopo essersi consultate a bisbigli, lo hanno raggiunto con ognuna cinque o dieci euro in mano. Lui si è fatto tutto gongolante, a giudicare dalla sua smania di protagonismo si sarà sentito il Saibaba delle strade. Ha raccolto i soldi dicendo “grazie” con quel suo tono da frate francescano viandante e affamato. Nell’assistere a quella scena ho scosso la testa e Zoppetto mi ha visto. Mentre se ne andava mi ha dato un’occhiataccia, manco fossi Satana, ma poi è finita lì.
Sento che siamo nemici, io e Zoppetto. Lui fa tanto il remissivo ma si vede che è un pallosissimo istrionico. E la grana la usa per il crack. E lui sa che io l’ho visto. Lui sa che in questo quartiere non c’è posto per entrambi e che la prossima volta che si permette di alzare il tiro con me io gli potrei dire roba del tipo:
- Senti ma perché non vai al centro diurno per senza tetto? – oppure: – Guarda che non c’è bisogno di dormire per strada, se non vuoi. –
Ormai l’ha capito e si è messo a girarmi alla larga, alla larga di brutto. Non mi piacciono quelli affezionati al ruolo della vittima.
Certe informazioni
Non sapevo di essere nato fuori dal campo rom finché non cercarono di mandarmi via, usando quell’informazione contro di me per la prima volta.
Quel giorno imparai anche qualcosa di importante su certe informazioni, su come la gente le usa. Ci sono pensieri che si sa che son lì, ma si tacciono, come assi nella manica si preservano per le giuste occasioni. Si finge il riguardo di non usarli contro una data persona, ci si convince persino di non averceli, ma magari, a un certo punto si usano, anche se non di dovrebbe, anche se non si vorrebbe. Si usano per parlare della data persona, per sfotterla, oppure per offenderla. Succede quanto questo produce un certo interesse. Sono i pregiudizi, alle volte sono fatti del passato che sembrano dimenticati, scaduti, roba che non riguarda i vivi, magari, ma che invece continua a fare stato.
A un certo punto chiesi a Polaco di poter sposare Mira e lui a quel punto mi svelò il segreto:
- No, scusa Alo ma tu non sei un vero rom.
- Eh? – sibilai girandomi verso Mira con un ghigno.
Lei mi guardava con benevolenza, forse pietà, e capii che era vero.
- Tu lo sapevi?
- Si, ma a me non cambia nulla.
Allora mi rigirai verso Polaco, presi a fissarlo. Dovevo sembrargli smarrito così fece:
- Scusa Alo, non te lo abbiamo detto, ma tua madre era puttana, scusa la parola eh.
- Ma, Porina e Flamur?
- Non son i tuoi veri genitori. Non è difficile da capire. Vuoi dare la colpa a loro adesso?
- No, figurati, ma adesso cosa faccio?
- Adesso c’è due cose: o tu lasci stare Mira e vabbè, anche le altre rom, si capisce. Oppure devi andare via e poi fai quello che ti pare, ma non con le rom. Hai 15 anni, sei uomo, ti diamo dei soldi e ciao.
- Ma io e Mira ci amiamo, non conta?
- Si, noi ci amiamo, non conta? – azzardò Mira con la voce che le tremava.
Polaco non fece mezza piega. Ci guardò come se fossimo la pubblicità della lisciva.
- No, beh, non conta ragazzi. Tu Alo, se dici che non molli l’osso allora devi andare via, hai tutta la vita davanti. Sei stato come un figlio. E a te Mira, faccio una sola domanda: vuoi andare via anche tu? Lasciare la mamma e tutti?
- No! – Esclamò Mira.
- No, esatto, perché sei una ragazza intelligente. – concluse Polaco.
- Ma dunque? – domandai ancora.
- Dunque smettiamola di annoiarci per oggi, una donna la troverai, ne troverai tante, ma via dal campo. Ti aiutiamo a cercare un appartamento, poi un lavoro viene fuori.
- Ma non si sa nulla di mio padre? – Chiesi dopo un attimo di silenzio.
Polaco rise fragorosamente e ci indicò la porta del suo carrozzone. Andammo via, Mira piangeva e corse verso la sua roulotte.
Quella sera finsi rabbia. Me ne andavo in giro immusonito e taciturno, sguardo basso e pugni stretti. A un certo punto infilai in uno zaino qualche abito, del pane e del formaggio. Tutta scena. Finsi di andarmene dopo avere salutato quelli che vedevo. Fu strano, non pianse nessuno, come se non fosse vero. Porina e Flamur nemmeno c’erano.
- Sto andando. – dissi a Pitàr, che stava vicino al cancello, stravaccato fra i cani a tagliarsi le unghie.
- A-ha. Tanto ci vediamo. Roma non è grande.
- Ma Roma è grande!
- A-ha. Ma ci vediamo, ci vediamo comunque.
Rimasi fuori, lungo la tangenziale. Nel cuore della notte tornai dentro e andai a bussare alla roulotte di Cuca, la vecchia. Lei rimase sdraiata nel suo letto e urlò di entrare senza nemmeno chiedere chi bussava. Le domandai di mio padre e lei mi fissò, ma tacque. Pensai di porle domande chiuse, perché forse non aveva voglia di parlare. Così le chiesi se mio padre era uno della comunità. Lei continuò a non muoversi ma con lo sguardo mi fece capire quello di cui avevo bisogno.
Corsi fino al carrozzone di Polaco, lo svegliai a versi e manate e gli sbraitai addosso la verità. Lui non mi poté contraddire.
- Si che era rom, d’accordo, lo ammetto, ma è morto prima che tua madre ti lasciasse fra i cani, al cancello.
- Ma questo non conta! Perché mi volevi cacciare, se lo sapevi?
- Perché lui era un bastardo, Alo, lui era mio nemico. Ci ho provato, perché ho le mie ragioni. Lo ammetto. Lo ammetto.
Poi Polaco mi fece cenno di uscire, anche lui era rimasto sdraiato e voleva tornare a dormire.
- E Mira? – chiesi prima di andarmene.
- La puoi sposare.
Fu un buon matrimonio, ma Polaco smise di rivolgermi la parola per primo.
Se gli chiedevo il perché avesse smesso di parlarmi lui negava, dicendomi che non aveva problemi a parlare con me. Ma non mi parlava mai per primo, ero sempre io a iniziare.
Per qualche anno mi dispiacqui, poi io e Mira andammo via da Roma con i bambini. Non ho più rivisto Polaco. Adesso stiamo a Pescara. C’è qui un suo cugino che non mi va a genio.