Racconto breve

Non cercarla

Racconto breve

Non cercarla 

2010

Era tardi per chiamarla ancora notte. Mi dovevo arrendere. Ero sveglio da circa tre ore ormai, fissavo la penombra uniforme e azzurra di quell’alba minacciosa d’aborto. Sentivo lo stomaco acido e vuoto. Eppure la mente chiedeva altro caffè. Ristretto, buttato giù con qualche biscotto sintetico. Tentavo, con una premura molto intima, di sperare che la sveglia suonasse prima del pianificato. Mi sentivo già attivo e la mia testa stava ormai lavorando a regime alterato, producendo saette d’idee e progetti, dandomi falso entusiasmo ad ogni nuovo desiderio. Era un’energia chimica, dovuta al mancato riposo.

Ero agitato perché quel giorno lo avrei dedicato alla ricerca di una cosa molto importante, lo avevo deciso la sera prima. Facevo il cuoco. Mi ero dato malato dal lavoro, lo chef mi aveva supplicato ma io avevo retto il teatrino.

“Ti prego, manca personale, non puoi prendere un paracetamolo e stringere i denti? Solo per domani.”

“Ho tirato troppo la corda capo, mi spiace.”

Era vero, la corda era tesissima e pensavo di cambiare lavoro. Quel giorno lo avrei dedicato alla ricerca della calma perduta. Cercavo di raccontarmi di avere iniziato bene, ero pronto, reattivo. Mormorai un insulto indirizzato alla sveglia e la disattivai prima del tempo.

Mi alzai dal letto. Camminavo lento per la casa.

Il bramato caffè scese fornendomi meno piacere del previsto, i biscotti non sapevano di nulla. Poco importava, dovevo andare, l’avrei trovata altrove, la mia calma.

Uscendo di casa mi resi conto di avere un accenno di vertigini, inoltre i miei occhi sopportavano male la luce. Mi diressi verso il centro, lì avrei pensato alle mosse successive, le idee spaziavano: avrei potuto cercare la calma in una libreria, in un bar, in una sala giochi, sul prato di un parco, in un cinema. Avrei valutato una volta arrivato in centro, di questo ero convinto, di questo ero sicuro.

Con un tram arrivai a circa un chilometro dalla piazza principale, a quel punto preferii scendere e camminare, per iniziare a godermi la città, per iniziare a cercare la mia calma perduta.

Dopo una decina di passi notai che tutto era ancora chiuso. Logico. Librerie, cinema, sale giochi, caffè. Soltanto serrande abbassate e io da solo nel mio vuoto.

“Maledetta fretta.” Mormorai sprezzante.

Inoltre quella era una grande città boliviana, nemmeno troppo ospitale a certi orari.

Arrivai in Piazza e scelsi una panchina vicina a degli alberi, pensai che avrei potuto iniziare a cercare la calma osservando la città risvegliarsi, sbocciare insomma. Dopo trenta minuti mi accorsi che il traffico attorno alla Piazza mi stava solo infastidendo e che guardare i bottegai alzare le saracinesche con calma, fumando e conversando con i colleghi del più e del meno, mi faceva solo sentire più stupido, più ansioso.

“Vedi come fanno piano? E lavorano pure.”

Iniziai ad avere i primi dubbi seri verso le dieci del mattino, quando dopo aver camminato per un paio d’ore a zonzo iniziarono a farmi male le gambe. La gola mi bruciava a causa dello smog.

Al mercato la mia calma non c’era, troppa puzza. Nella libreria i libri costavano troppo, non era un luogo per la mia calma. La sala giochi era troppo rumorosa. Al cinema non c’era nulla di degno in programma fino alle cinque del pomeriggio. La città mi sembrava più fastidiosa di quando la frequentavo per lavoro.

Verso mezzogiorno mi sentivo totalmente frustrato, perché mi ero alzato apposta per cercare la calma perduta, ero uscito di casa molto presto sentendomi quasi uno di quei contadini che parlano con la natura, eppure quella stronza non tornava, quella stronza chissà dov’era. Tutto questo casino per niente, avevo anche sprecato un giorno di malattia che potevo tenermi in buono per qualche altra occasione.

Decisi che mi sarei fermato per mangiare qualcosa in qualche paninoteca, magari sorseggiando con calma una birra fresca. Così feci, ma mi sentii solo, talmente incompatibile. Uscito dal locale mi sedetti sul muretto che circondava la piccola chiesa di quel quartiere centrale, pensai di digerire con calma il pasto. Mi sforzai di respirare a fondo, conoscevo tecniche di training autogeno.

Dopo alcuni istanti sentii come un fruscio alle mie spalle, verso il basso. Mi voltai e guardai dall’altra parte del muretto, in direzione del prato immacolato e fresco.

Un anziano piuttosto sporco era rannicchiato sotto a una coperta e sopra a uno strato di cartoni anch’essi sudici e vecchi. La sua testa, avvolta da una cuffia da nuoto, faceva capolino come se fosse un fungo enorme fra le foglie bagnate. La coperta sembrava comunque accogliente e il viso del vecchio era apparentemente rilassato. Capii che l’uomo si stava per svegliare, poco dopo infatti aprì gli occhi lentamente e nello stesso modo iniziò a stirare tutto il corpo da sdraiato. Arti e ossa si animavano sotto a quella scarlatta coperta che mi sembrava comoda. La danza durò per un paio di minuti buoni. Partirono un paio di scoregge, seguite da sue sghignazzate.

“Ma tu guarda che bel risveglio.” Dissi a bassa voce.

Poi l’anziano si mise seduto, ancora non mi aveva notato. Mosse lateralmente la mandibola, prima a destra poi a sinistra, rimase intontito a fissare il prato, pensai che stava ripensando a un bel sogno appena fatto. Guardò in alto, verso il campanile e proprio mentre iniziava a farsi il segno della croce mi notò.

I nostri occhi si incrociarono a circa due metri di distanza, eravamo vicini, l’aria ancora fresca era quella di inizio primavera. Poi il vecchio parlò e la mia giornata si risolse:

“E tu chi saresti?” Mi chiese con mio stupore. La sua voce era di una tonalità esile e acuta, però era rilassata, come un sospiro.

“Buongiorno, mi sono seduto qui per digerire.”

“Idiota.” mi rispose sghignazzando e stringendo gli occhi trasformando il suo sguardo in quello di un pacioso topo felice.

“Scusi signore, ma perché mi da dell’idiota?”

“Perché a trent’anni ti fermi per digerire.”

“28”

“E allora sei un idiota.”

“Il fatto è che mi stavo anche annoiando.”

“Perché ti annoi, ragazzo?”

“Cercavo un po’ di calma e non l’ho trovata.”

“Cercavi un po’ di calma o cercavi la tua calma?”

“La mia calma.”

“Io la conosco, me la sono fatta.” Emise un sibilo divertito e poi una risata lunga e tranquilla. Non so come o perché, ma lo stavo invidiando.

“Ti sei scopato la mia calma vecchio?”

“Non mi chiamo vecchio, io sono il T.G.O.

“Chi?”

“Il T.G.O, io sono il Tuo Giorno Odierno.”

Pensai di non aver capito qualche inflessione spagnola, ma il vecchio mi incalzò.

“Sono il tuo giorno e non è una buona cosa quando uno si sveglia prima del suo giorno, peraltro agitandosi, è pericoloso.”

“Facciamo che ci credo, tu sei il mio giorno. Mi sai dire dov’è la mia calma?-

“È ancora a casa tua, coglione, proprio dove dovevo venire io fra circa un’ora a svegliarti. Mi precedi sempre.”

Il mio giorno si rimise a dormire senza neppure congedarsi.

Arrivato davanti alla porta sentii una voce di donna che cantava una melodia bellissima, lenta e dalle note lunghe.

Mi spaventai, io abitavo solo. Riuscii ad aprire la porta anche se mi tremavano le mani. Corsi verso il punto da dove proveniva quel canto di sirena. Nel mio letto c’era la mia calma.

“Dove sei stato, coglione?” mi disse con dolcezza.

“A cercarti.”

“E invece io ero qui, non mi hai vista? Rifatti un caffè, ma stavolta senza fretta.”

Caricai il caffè e lo guardai salire mentre ascoltavo un cd, dallo scaffale presi un libro e tornai a letto.