Racconto breve
Racconto breve

Però ti vedo abbastanza riservato
2010
A un certo momento della festa c’è questo tedesco molto pallido che si avvicina. Ha i rasta e un musetto che mi ricorda quello di un micio pulito. Sorride, è affabile. Ha dita curate o perlomeno gravate da poca usura, sorregge un bicchiere di birra. Il bicchiere è di plastica e lui lo fa scricchiolare con quelle sue unghie che non si è mai morso, e quei polpastrelli soffici.
“Ciao.” Mi fa. Alza una mano e inclina appena il capo.
“Hola.”
“Ah! Hablas español?
“È solo un modo che ho di salutare”
“A ok, e parli tedesco? Mi chiede nella mia lingua.”
“Un po’ di tedesco lo parlo ancora.”
“E parli altre lingue?”
“Spagnolo.”
“Ma tu. Hei, aspetta un momento, tu mi hai detto di non parlare spagnolo!” ridacchia, ma con la faccia come indispettita. Mi fa il segno di sgridarmi con un ditino.
“No, non l’ho detto.”
“Allora possiamo parlare spagnolo, oppure preferisci il tedesco?”
Ecco. Certamente non ho intenzione di dirglielo, non ho voglia di attriti, incomprensioni o roba simile, ma in ogni caso a quel punto mi chiedo per quale cazzo di motivo dovremmo parlare in spagnolo o in tedesco. Ma ancora prima mi chiedo perché dovremmo parlare. E di cosa? Temi sparsi? Tirerà un dado? E poi c’è questa sensazione che mi ha preso alla gola. Si. La sensazione che qualsiasi cosa della quale parleremo, qualsiasi argomento affronteremo, il tedesco e io finiremo sempre per complicarci le cose. Incapperemo sempre in distacchi, relazioni claudicanti, simmetrie. Si. E dovremo continuamente darci delle ulteriori spiegazioni a vicenda, se non addirittura le spiegazioni delle spiegazioni. Il solo pensiero di mi sfinisce. E non è che non mi andrebbe di parlare con qualcuno. Ma so già che parlare con lui è inutile. Lo sento dentro, all’altezza del petto e della gola.
“Ma no dai, parliamo italiano, già che ci siamo, che ne dici?”
“Si, perfetto. Allora, come ti chiami?”
“Teo.”
“Sarebbe Matteo?”
“Si, se ti va”
“Anche tu sei qui in vacanza?”
“No, io abito in qui.”
“E non sei andato al carnevale? È a mezz’ora di auto da qui.”
Sorrido e ammicco, come a lasciar intendere qualcosa del genere: Eh, sapessi i carnevali che mi sono fatto in vita mia, io che sono di Bellinzona.”
Mi colpisce che sia già passato all’attacco.
“Non ci sono andato.”
“E perché no? Se abiti qui hai tutto il tempo di fare quello che vuoi. 30 minuti di auto!”
Lo guardo un po’ meglio, cerco di capire se è fatto o cosa.
“Avevo bisogno di qualcosa di più tranquillo.” Gli dico.
Allora il Bianco Micetto tedesco con i rasta e le dita esangui e intatte (il colmo per delle dita) mi guarda come se avessi detto una cosa molto sciocca. Sgrana gli occhi e fa una strana onda con l’arcata sopraccigliare. Odio quella piccola onda di peli biondicci, la vorrei spaccare, lacerare con una manata.
“Ha!” ride. “Come no! Cercavi qualcosa di più tranquillo e sei venuto a una festa?”
Sono già sfinito, ko, mi sento stanco della conversazione e i miei occhi iniziano a guardarsi in giro. Mi distraggo e lui lo vede.
“È una festa, si, ma è sempre più tranquilla di un carnevale, no?”
La Bianca Colombella cotonata fa spallucce. Si guarda un po’ attorno. Fa scricchiolare quel suo bicchierino di plastica cinese. E poi se ne viene fuori con la cosa più vera che potesse inventarsi.
“Però ti vedo abbastanza riservato.” E lo dice piantandomi gli occhi negli occhi, come a esigere una spiegazione.
Dal canto mio alzo le spalle, non è che provi chissà cosa. Lo guardo e rispondo.
“Si, sono un po’ riservato.”
A quel punto mi chiede se mi piace fare il giocoliere, aggiungendo l’enigmatica informazione inerente al fatto che lui ha imparato molto bene a “danzare con il fuoco”.
“Il giocoliere? Non ho mai imparato.”
“Posso insegnarti. Vuoi vedermi che danzo con il fuoco?”
Faccio la figura del meschino e un po’ questo ruolo lo subisco, però lo fermo, gli dico che devo andare al cesso e smammo. Anche perché io a quello nel fuoco ce lo vorrei vedere eccome. Faccio una massiccia cagata e una volta uscito dalla toilette mi posiziono all’angolo opposto al suo. Lo noto da lontano, mi manda occhiate fugaci, sento che sta pensando di riavvicinarmi e dunque mi concentro sullo sprigionare ogni energia negativa in mio possesso, ci riesco bene.
Lo vedo che si siede su un divanetto ammuffito e avvolge con le ginocchia un tamburo da strada. Inizia a picchiettare con le sue mani di velluto bianco sulla pelle di capra tirata. Tiene gli occhi chiusi e le labbra serrate. Non è che segua un ritmo. Continuo ad osservarlo per un po’, poi torno al tavolo con i miei amici per ascoltare quello di cui stanno parlando. Stasera mi ha preso così, mi sento abbastanza riservato.