Racconto breve

Racconto breve

Certe volte un bellinzonese

Certe volte un bellinzonese
di Matteo Beltrami

“Così noi viviamo, per sempre prendendo congedo.”
Rainer Maria Rilke

Era un martedì di metà novembre. Quella notte avevo sofferto d’insonnia, dunque partii molto presto da Locarno. Arrivai a Bellinzona inseguito dai primi bagliori del giorno. Tutto era ancora azzurrino e opaco. Prima del curvone di Gudo una volpe aveva attraversato la strada. Era saltata giù dal ronco sulla sinistra. Mi era sembrata un’ombra, poi una fiammella, poi proprio una volpe. Avevo avvicinato il mento al volante e avevo rallentato per assicurarle il passo.  Lei era scappata sulla destra, verso uno stagno che conoscevo da bambino. La creatura mi lasciò nei pensieri un’immagine di inarrivabile splendore. Ma lo sapevo solo io. Ingranai qualche marcia e mi arrampicai su per Sementina, scivolai giù da Monte Carasso e passai da dietro, dalla birreria, sfiorando i muri che restringevano oltremisura la carreggiata.

Circonvallai la città e attraversai il ponte sul Ticino. Gettai alcuni sguardi soddisfatti verso Artore e Daro. Passai dallo stadio e in seguito lungo la Henri Guisan superando la banca. Percorsi il viale Portone e raggiunsi l’audace preselezione di via Motta, in quel momento priva di traffico. Preferii fare quel giro perché già da un bel pezzo la via Mirasole era chiusa, ti deviavano verso il campo militare e non mi andava di percorrere le strade lì attorno, che erano piene di buche e si contorcevano in mille svolte.

Dopo la preselezione feci il mio ingresso nel centro storico guidando adagio, il porfido traballava un po’ al passaggio della piccola automobile, l’avevo previsto e avevo abbassato i finestrini apposta per ascoltarne il rumore. Quello era l’unico rumore che stavo ascoltando. E mi sentivo calmo. Trovai posteggio molto facilmente, in quella fila che di solito era sempre occupata, di fianco al teatro.

In piazza della Foca non c’era un’anima. Nemmeno gli ausiliari di polizia a far le multe. Scesi dalla macchina e subito provai un ponderato senso di nostalgia delle epoche che in passato avevano preso forma fra le mura e che ormai erano sbiadite, come naturale. Lento camminai sulle mie suole dure fino al noce, percorsi il portico, proseguii fino alla Collegiata. Nel cuore della piazza mi fermai. Soppesai il percorso compiuto da quando ero sceso dal letto. Mi resi conto di una cosa importante: io credevo di poter fare colazione leggendo il giornale. Aspettare il sorgere del sole al caldo di una pasticceria. Ma ero arrivato troppo presto ed era ancora tutto chiuso.

Il mio sguardo risalì lungo le pietre della torre del Municipio, fino all’orologio. Era l’ora di non avere orari. Decisi di bighellonare per un po’. Tenevo le mani nelle tasche dei pantaloni, gli avambracci mi mantenevano il mantello aperto. L’aria sapeva di brina e mi si posava sul cuore attraverso la maglia di lana. Era come se mi cristallizzasse le emozioni, in quel primordio di giorno. A passi e respiri cadenzati camminai fino alla golena. Incrociai i primi passanti. Prima un uomo e poi una ragazzina. Altri tre lungo via Murate, due donne e un anziano, che portava un colbacco nero e blu. Con l’anziano ci scambiammo anche un cenno del capo. Raggiunsi la biblioteca, le camminai un po’ di fianco. Ne ammirai la pacatezza. Iniziai a scorgere il fiume fra gli arbusti.  Ci arrivai. Lo salutai sfiorando le sue acque con le dita e senza perdere il ritmo placido passeggiai per un po’ controcorrente. Raggiunsi le piscine. A quel punto iniziò ad arrivare un vento tagliente e ghiacciato. Secondo me veniva da Preonzo o Lodrino o da quelle parti lì, e non mi aveva offerto nessun preavviso. Era possente e come il passaggio di un treno merci non si sarebbe interrotto per un bel po’, lo capii in fretta perché lo conoscevo.

Il vento mi attaccò da più fronti. Mi sferzò il mantello. Mi venne voglia di parlarci, non capii il perché, ma ogni tanto un bellinzonese lo fa.

– Sai fare il tuo mestiere, ma ora esageri.- Gli dissi chiudendo gli occhi.

Lo stesso vento furioso iniziò a ripulire i cipressi e le mura e l’erba che ricopriva l’argine, lunga ma ingiallita dall’inverno. Il vento poi terse i colori, che in pochi istanti divennero più nitidi e lucenti. E l’aria sollevò anche un sole pallido, che non riscaldava, che a malapena aveva voglia di sorgere. Venne su fiacco, di fianco al motto della croce. E io ero arrivato nel cuore del prato del liceo e lì in mezzo, esposto a quelle intemperie, mi sentii a casa senza capire il perché. Vidi alzarsi in volo lo stormo di corvi che abitavano sugli alberi in fondo al campo, ascoltai il loro inveire, erano in lotta contro le folate per la conquista del cielo.

Incoraggiai i corvi e tornai verso il centro. Poco dopo le 9 trovai un bar che mi andava bene, degli anziani fumavano seduti ai tavolini, sulla strada. Entrai e ordinai del caffè. Un avventore, altrettanto anziano ma più zelante, si incuriosì per il mio arrivo. Notai che sorseggiava già un rosato e che era pervaso da un estro fuori dal comune. Mi scrutò senza remore, minuziosamente. Poi, non appena lo reputò opportuno, si avvicinò e pretese di parlarmi. Nello specifico ci teneva ad esprimermi la sua passione per le poesie di Arthur Rimbaud. Non conoscevo bene quell’autore, non mi andava di parlare di Arthur Rimbaud. In quel frangente della mia giornata l’avrei reputata una perdita di tempo. Eppure sorrisi al frequentatore e perlomeno gli diedi il mio ascolto per un po’, così lui, incoraggiato, quasi affezionandosi a me, mi chiese:

-È la prima volta che visita Bellinzona?

-No signore, non ci tornavo da un mese, ma io son di qua.

-E dove abita adesso?- Volle sapere.

-Abito a Maggia. Dissi mentre facevo con la mano un vago cenno verso ovest.

L’estroso uomo allora sospirò, colto dalla compassione per il mio espatrio, annuì solennemente e divaricò le gambe per acquisire ulteriore stabilità fisica. Infilò i pollici nelle bretelle, allungò il mento anche lui verso ovest e mi chiese:

-E come va con i porcini su in Onsernone?

Ma io non conoscevo i funghi e non avevo mai messo nemmeno un piede sul territorio della Valle Onsernone, però non mi confusi e risposi prontamente:

-Quest’anno ne stiamo raccogliendo a chili.

A lui brillarono gli occhi e a me in tutta onestà, senza capire il perché, venne voglia di ordinare un rosato. Ma non lo feci. Quello che feci, invece, fu pagare e congedarmi cordialmente. Uscii dal locale e subito con agitazione mi riabbracciò il vento nordico. Costeggiai le facciate altissime della via Codeborgo. Sbucai in Piazza del Sole.

La attraversai diagonalmente evitando di calpestare le piastrelle, rese viscide dall’umidità e pertanto molto pericolose. Non scivolai nemmeno una volta ed entrai alla Migros. Durante l’epoca di Natale c’erano i frutti esotici e io volevo dare un’occhiata. Vidi le carambole dalla Malesia. I rambutan e le pitaya rosse erano del Vietnam. Le pitaya gialle dall’Ecuador. Il pomelo miele veniva dalla Cina. I miei occhi tornarono sulle pitaya gialle. Costavano 6 franchi l’una.

-6 franchi l’una.- Bisbigliai sogghignando fra me e me mentre soppesavo il frutto e lo guardavo come fosse un film. Il macellaio era dietro al suo banco, a un paio di metri. Mi vide.

-Parla da solo?- Mi chiese sarcastico appena incrociai il suo sguardo serio.

-6 franchi l’una, dicevo.- Ripetei rivolgendomi a lui, che continuava ad osservarmi di sbieco, adesso chinato a recuperare qualcosa dal frigo.

-5 e 90. Non è poco ma son chiamati anche frutti del drago e li facciamo arrivare direttamente dall’Ecuador.- Rispose allora lapidario, rimettendosi dritto.

-Per l’appunto. È un lungo viaggio e questo è il loro valore.

-Lungo e costoso, se ci intendiamo.- Incalzò.

Sorrisi affabile.

-‘Rivederci.- Dissi prima di fregarmene e di scansare l’area dei formaggi per sparire a farmi un giro fra le leguminose e le paste asciutte.

Al reparto animali c’era un piccione che beccava del mangime per gatti caduto sul pavimento consumato del negozio. Sulla mia testa volarono alcuni passeri, ne notai uno che cagò su una piccola piramide di marzapani. Lo fece in un lampo, nessuno se ne accorse. Andai alla piramide e guardai il danno che aveva arrecato alla merce.

-Poca roba.- Sussurrai.

Uscii dalla Migros senza comprare nulla e mi ritormentò il vento convulso, che iniziò a distorcermi i sensi.

Camminai spedito fino alla Villa dei Cedri. Mi sedetti su una panchina del parco senza capire bene il perché. Pensai che uno di bellinzona a volte certe cose le fa. Passa in Villa e si mette a sedere e osserva lo spettacolo botanico e pensa a come sarebbe stato vivere lì nell’ottocento o nei primi decenni del novecento, ma rimane incerto sulla risposta, perché oggettivamente essa dipende da molti fattori. Chissà, forse sarebbe stato perfino noioso. Tutta quella religione, la pretesa di partire per il fronte, cose di questo tipo. Le fronde sbattevano. Mi venne paura di ricevere un ramo di magnolia in testa e ripartii per Ravecchia a passi distesi e veloci.

In un giardino situato più o meno all’incrocio fra la via Rompeda e la  Pedevilla, vidi un piccolo albero di cachi. Era nero e marrone, carico di bocce arancioni. I suoi rami erano venature in controluce. Sembravano dipinti con la china sul cielo turchese. E c’era sempre quel vento che pettinava tutto con collera e che mi faceva perdere il filo dei pensieri con il suo frastuono e le sue capriole maldestre. Al parco giochi sotto l’ospedale una scolaresca inseguiva ululando cumuli vorticanti di foglie. L’aria forse mi fece delirare perché mi chiesi se non fossero in realtà le foglie ad inseguire i bambini. Allo stesso tempo, senza una ragione, mi chiesi come sarei morto, quando o se di fatto sarei mai morto sul serio. Avevo bisogno di divincolarmi da quelle lingue d’aria e da quel turbine di strane astrazioni fuori controllo. In men che non si dica mi ritrovai sulla via per il terzo castello.

La chiesetta della Santa Maria della Neve era sempre una bella visione. Mentre la superavo le dedicai alcune occhiate interessate, che erano al contempo amareggiate e bonarie, perché tanti anni prima sul piccolo sagrato avevo parlato di matrimonio con una ragazza, ma lei non se l’era sentita. Con indulgenza sorrisi a quei ricordi. Camminai veloce e arrivai presto a destinazione. Posai i gomiti fra i merli e guardai giù. Un bellinzonese ogni tanto certe cose le fa. Va su e guarda giù. Fa scorrere lo sguardo pian piano sui tetti color coccio e lo sa lui a cosa pensa, lo sa lui cosa vede. Forse va su per verificare se è ancora tutto lì. Che cosa di allegro ha portato il vento. Che cosa invece ha rapito. Il palazzo in cui abitava da piccolo. La casa dei nonni. La scuola.

E fu così che dal Sasso Corbaro mi sentii di nuovo di appartenere. Non mi andò nemmeno di star lì a capire a cosa o perché. Non era una sensazione nuova, bensì rinnovata. E mi diede un sollievo. Mi reputai soddisfatto, avevo ritrovato casa, dunque feci per camminare fino in Collegiata. Avrei bevuto un caffè al sole prima di congedarmi da Bellinzona fino alla visita successiva. Solo che dopo aver camminato fino al castello di mezzo ed essere entrato nella sua corte per attraversarla, un’impiegata dell’ufficio turistico attirò la mia attenzione scusandosi a prescindere. Le rivolsi un sorriso intorpidito senza smettere di camminare, seppur molto lentamente, per lasciarla parlare e capire cosa voleva:

-Dovrebbe pagarci cinque franchi signore.- Sostenne.

-Perché?- Chiesi stranito ma ancora disponibile.

-Per accedere alla corte del castello.- Rispose, come a voler precisare qualcosa di evidente.

-Ma signora io son di qui, non sono qui per vederla, ci passo soltanto per scendere in centro.

-Lei è il quinto passante che oggi ci risponde la stessa cosa.- Si lamentò.

E allora mi offesi. Non so bene il perché, ma un bellinzonese ha delle zone di guerra interiori che non vanno calpestate. Mi sentii banalizzato nel mio vago senso di appartenenza. Non stetti lì a sindacare, però non pagai, allungai il passo e la seminai. Scesi dal sentiero del castello. Saltellai e mi fissai le scarpe per tutto il vertiginoso tragitto. Entrai in piazza Collegiata col fiatone e un giramento di testa, ma subito e di fretta tornai su via Magoria, perché un fugace senso di colpa mi propose di ripresentarmi sul castello per pagare l’impiegata. In pochi passi intrapresi un’inversione di rotta, aggirai l’isolato e mi ritrovai di nuovo ai piedi della strettoia che raggiungeva Montebello. Esitai e considerai un po’ meglio quello che stavo facendo.

-E no, niente da fare, non sono mica un turista.- Dissi a denti stretti.

Non tornai su e non pagai il mio dazio. Piuttosto tornai a Locarno, che era sempre e comunque il luogo che avevo scelto per abitare. E mica per caso. Pensai ispirato da un ironico senso di biasimo.

-Cinque franchi. Mormorai ancora fra me e me dopo un bel po’, quando ero già al curvone di Gudo, sulla via del ritorno.

Ma fra la barba e i baffi mi si pieghettarono le labbra, perché mi sentii tedioso, forse mi era rimasto addosso il vento.

Arrivato a Locarno presi posto in un gremito baretto, fra i tavolini sparpagliati di fronte al lago. Ordinai un birrino. Mi baciarono intensi raggi solari, le mie giunture si rilassarono. Le mie ossa si riscaldarono. Respirai l’aria, che era ferma e temperata. Tubavano i piccioni che sembrava primavera. Ammirai all’orizzonte un’estesa linea d’acqua più chiara, che irradiava tutto l’ambiente con il suo cobalto e incantava le anatre con il suo sciabordio quieto. Dalle campane echeggianti della città vecchia, alla vista sul monte Gambarogno, ogni cosa mi sembrò accogliente. Tintinnavano appena le tazzine di caffè attorno a me. C’era un profumo ti mandorle tostate nel caramello.

– Pensai.

Ma nel profondo provai la nostalgia di una nota di dolce austerità, che ben conoscevo. Non riuscii a cogliere bene il perché, ma certe volte a un bellinzonese, quando non è a casa, capita.