Racconto breve

Racconto breve

El Chicha

El Chicha
di Matteo Beltrami

 

Quel giorno non mi fregava di lavorare, non mi sentivo svogliato, ma neppure invogliato, quel giorno non mi fregava di lavorare, punto. Non ci pensavo neppure. Raggiunsi il parchetto del ritrovo verso le sette di una mattina del cazzo qualsiasi. Non sentivo nulla, nulla nella testa, nulla nello stomaco. Nelle cuffie c’era Kurt, erano anni che non lo ascoltavo con tanta ossessione. Per quanto ne sapevo io, Kurt poteva benissimo essere stato l’attesissimo Gesù Cristo. Vista la situazione sulla terra, poi ha preferito spararsi una pillola dritta sul palato. Questi erano i pensieri che stavo facendo quella mattina, mi pare di aver detto tutto su quello che mi succedeva dentro, quella mattina. Parlando del fuori invece, presi posto su una panchina del parco, sotto al mio culo, per terra, notai subito la presenza di alcuni cocci di vetro e di una notevole quantità di vomito e sangue rappresi. Sfilai la chitarra dalla custodia e mi tolsi le cuffie, presi a strimpellare senza dare troppa importanza alla musica. Nel giro di cinque minuti mi raggiunsero la Suora e la Vergine Madre; la seconda era una specie di educatrice religiosa laica. Si, laica, come la cagnetta dello spazio. La laica era anche madre di quattro figli piccoli. La Suora invece era proprio una suora, veniva dall’Indonesia.
Insieme alle due, avrei dovuto aspettare l’arrivo degli altri educatori, ci attendeva un’altra lunga giornata da trascorrere tentando di svolgere qualche attività costruttiva con una banda di ragazzi di strada del centro di Cochabamba, Bolivia, quello era il mio lavoro.
Strimpellavo, non cantavo, la Suora e la Vergine Madre mi ascoltavano in silenzio, loro stavano spesso in silenzio; tutto sommato erano delle brave educatrici di strada, nonostante la parola del Signore intendo. Ma in fondo non è che la applicassero alla lettera, il che mi stava bene. Le reputavo in gamba.
Strimpellavo una canzoncina triste dei Verve, mi venivano in mente gli anni novanta, mi sarebbe piaciuto esprimere la cosa alle due adepte, ma non sapevo quanto se ne potevano sbattere loro degli anni novanta. Io invece ne sentivo la nostalgia.
In lontananza un personaggio in disarmonia con il paesaggio apparve. Era un Punk, si vedeva dalle borchie, dal completo di cuoio nero, dai capelli ossigenati pettinati in tante punte sulla testa, era un Punk e ci stava parlando, ci stava facendo dei gesti, si stava avvicinando. Qualcosa accadeva. Quando il giovane fu abbastanza vicino per farsi capire, allora capii. Palesemente ubriaco, voleva presentarsi, bhè…ci riuscì. Era cileno, aveva deciso di abbracciare la filosofia Punk, gli piaceva bere, viveva in strada o in letti di fortuna, ogni tanto suonava per la strada con alcuni amici, suonavano punk, era un punk. Alla fine della presentazione, che trovai adeguata e piacevole, il Punk mi chiese se a me e alle due fedeli, andasse di ascoltare un suo lamento. Disse proprio così. Un lamento.
“Un lamento?” chiese la Laica.
“Esatto principessa, un lamento, una passione, una mia composizione” disse il punk.
“Certo amico, prendi posto” gli dissi allora allungandogli il legno.
“Grazie fratello, reggimi la colazione” disse il Punk passandomi un sacchetto pieno di Chicha, dal quale sbucava una cannuccia insalivata.
La Chicha era un fermentato alcolico del mais, una bevanda sacra per gli antichi popoli andini, una bevanda profana e travolgente, opinavo io.
Beh, amici, el Chicha agguantò la chitarra, si diede una sistemata ai polsini di cuoio con le frange, piazzò le dita su un accordo di puro punk, che coinvolgeva solo le corde più basse dello strumento , ed iniziò a darci dentro con un giro di quattro note pesantissime e rapide. Dopo due giri, piantò un urlo da pantera ferita che mi fece stringere il culo, sgranare gli occhi e che fece saltellare dallo spavento, all’unisono, le due sorelle.:
“Yyyyyaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaahhhhhhh”
Dopo il grido iniziò la canzone, caratterizzata da una voce roca ma alta, graffiante e biascicata. El Chicha se lo era studiato per bene il punk.
Il testo era avvincente e volutamente anti intellettuale; parlava in prima persona del fatto che lui, El Chicha, aveva una voglia fottuta di bere solo alcool puro, quello al 99% che si usa per pulire i vetri, perché lo si trova ovunque ed è il meno costoso, questo il testo lo ripeteva spesso, come fosse un gingle pubblicitario. Il Chicha stava gridando al parco e a chi lo udiva che lui si faceva di alcool puro perché non costava un cazzo, e cantando malediceva i ricchi che sprecavano l’alcool puro per pulire le maledette marmitte delle loro maledette auto veloci, o le merdose vetrate gigantesche degli asili dei loro figli-principe del cazzo. Il Chicha era coinvolto dalla sua produzione musicale, le mani le faceva andare bene e la voce era notevole, notevole davvero. La Suora e la Vergine Madre lo guardavano con la coda dell’occhio, imbarazzate, ma non disturbate, forse quasi divertite. El Chicha ci stava facendo una figura magnifica, invidiavo la sua energia, la sua voce, invidiavo meno altre cose di lui, questo è anche vero, ma la sua energia e la sua voce, wow.
Il brano volgeva al termine. El Chicha gridò intonato l’auspicio che nel mondo si sprecasse meno alcool puro per puttanate consumistiche e capitalistiche tipo l’igiene dei pavimenti, che lui quel liquido magico se lo voleva bere e come lui se lo volevano bere tanti altri randagi, disposti anche a crepare per strada con gli organi corrosi, ma lontani dalle infide mani dei dottori e dalle estreme unzioni dei maledetti preti.
El Chicha mi salvò la giornata, che grazie a quel pezzo divenne incantata di bellezza.
Alla fine dell’ultima strofa chiuse gli occhi e cacciò un altro urlo da pantera ferita, acuto, penetrante, ubriachissimo, sporco, totalmente intonato, perfetto insomma.
Poi tutto tacque, neppure il tubare dei merdosi piccioni esisteva più, El Chicha rimase con gli occhi chiusi per alcuni istanti, riaprendoli in seguito con lentezza emozionata. La prima cosa che vide fu il mio sorriso, la prima cosa che udì fu il mio applauso, seguito dall’inaspettato applauso della Suora e della Vergine Madre Laica.
Senza parlare mi ripassò la chitarra, si riprese la Chicha e tornò sulla sua via, barcollando e alzando verso il cielo due dita tese, il segno della pace. Pensai che per quanto ne sapevo io, pure lui poteva essere lo smarrito Gesù Cristo. La Suora e la Laica si guardavano ammiccando, forse un po’ confuse ma rallegrate. Ognuno poteva essere quello che era.
“È stato bravo” sussurrò la Suora indonesiana.
“Davvero un bravo musicista, e poi che bella la sua voce” concluse la Vergine Madre.